19 settembre 2025

"La musica e la vergogna" di Claudio Orsi

 



di Elisa Bertoni 

               Perché associare alla musica un termine come vergogna e non piuttosto onore, orgoglio, successo?

               Il titolo del libro di Claudio Orsi potrebbe sembrare un ossimoro che ribalta la percezione istintiva che solitamente accostiamo alla parola “musica”. Di quale “vergogna” si tratta e in relazione a quale “musica”?
Invece di rispondere alla domanda proviamo a mettere in relazione tra di loro due noti aforismi. Il primo di Miguel de Cervantes recita: “Dov'è musica non può esservi nulla di cattivo”. Il secondo di Friedrich Wilhelm Nietzsche afferma: “Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a incutere vergogna”. Da un rapido confronto si potrebbe desumere in modo indubitabile che la vergogna, associata ad un comportamento moralmente riprovevole, si confà a pennello a chi muove il dito inquisitorio e accusatorio per suscitare vergogna e non piuttosto a chi, pur con mezzi rudimentali più o meno improvvisati, tenta di muovere i suoi passi nella musica, attività mai cattiva in sé, adatta a tutte le età nelle declinazioni più svariate dei suoi generi.


               Già dal titolo, dunque, l'autore provoca il lettore, sfidandolo ad adottare una lente ironica e disincantata, necessaria per approcciarsi al testo, un testo che sa toccare momenti cruciali della nostra storia novecentesca fino ai giorni nostri, con un piglio narrativamente godibile per la sua leggerezza, resa altresì corposa grazie ad un humour garbato, capace di costruire gustosi quadri di costume, di regalare delicate emozioni, di suggerire acute riflessioni.


               Si può forse rimproverare a Vincenzo, protagonista del primo racconto, di essere rientrato tardi a casa, a mattina quasi fatta, zuppo di pioggia, se si è lasciato sedurre dalla Rossina, fatalmente attratta dai suoi colpi alla batteria? Galeotta fu la bacchetta! Si può forse criticare la generazione dei Beat, al centro del secondo capitolo, definiti a Lucca con icastici appellativi quali “panchinari” e “cialtronpower” se nella loro musica e nelle loro scelte di vita emergeva il desiderio di distinguersi dalla massa di “borghesi benpensanti, consumisti e conformisti” così come da quella “dei popolani moralisti e reazionari” e dei “superuomini violenti”?
E certamente non possiamo imputare niente a Mandarino, l'io narrante del terzo racconto, se, suonando con la sua giovane band all'Hotel Bixio per l'ultimo dell'anno del 1968, matura una esperienza cruciale per le sue future scelte politico-ideologiche. E, percorrendo rapidamente gli ultimi due capitoli, non possiamo neppure censurare un settantenne se continua, divertendosi, a suonare nei pub, e a illudersi nel sogno di un disco, che tante speranze prometteva, rifiutato poi come un figlio storpio dell'antica Sparta.


               La chiave, quella per comprendere il libro, è proprio effigiata sulla copertina: serve per accordare i tamburi. Ritmo e accordo. L'autore svela così come ogni possibile nube di vergogna svapori se a spingere le mani e il cuore c'è desiderio di armonia, il riflesso musicale di una pace agognata tanto nel privato quanto nel pubblico, nella speranza di una società nuova. “All you need is love”! Nessuna vergogna, dunque, qualsiasi sia la musica, quando in essa va ricercato un bisogno stringente di amore personale e collettivo, che detti i suoi ritmi.


               Del resto per concludere con il poeta Torquato Tasso: “La vergogna ritien debile amore;/ma debil freno è di potente Amore”. Questo libro testimonia in modo indubitabile quanto l'Amore di Claudio Orsi per la musica e per l'armonia che essa rappresenta è tutt'altro che debole, oltre ogni vergogna.

 

16 settembre 2025

"Cuoio" di Gabriele Cavallini

 


Cuoio. La rovina di una famiglia

di Giovanna Baldini

Il libro, romanzo d’esordio, di Gabriele Cavallini, nato a San Miniato in provincia di Pisa, è ambientato nel Comprensorio del cuoio, la zona industriale conciaria che comprende i Comuni di Santa Croce Sull’Arno, Castelfranco, Fucecchio.

Protagonista una famiglia di conciatori: un nonno, al tempo del boom degli anni Sessanta, fonda l’impero economico della famiglia Cavalcanti, che garantisce benessere e ricchezza; un figlio che segue le orme del padre; i figli di lui, oggi, che di questa ricchezza vivono la maledizione.

Tutto è cambiato perché il padre non ha saputo continuare l’attività della conceria avviata dal vecchio e i figli, Michelangelo ed Emanuele, sono altrettanto inadeguati. Emanuele, quando la madre all’improvviso sparisce per sempre, si chiude in se stesso, smette di parlare, non esce di camera, non si rapporta col mondo. Il fratello Michi, in prima persona, ne racconta la passiva quotidianità.

Ambientata a Santa Croce, un paese tra colline incendiate dal sole in un paesaggio più africano che toscano, la storia si svolge tra i ricordi di un passato idilliaco e il presente drammatico che alla fine, come un fiume in piena, travolge tutto.

I protagonisti, schiacciati dalla religione economica del vecchio Cavalcanti e costretti a perpetuare un lavoro e un benessere ormai inesistenti, consumano la loro vita nell’inettitudine.

Il padre di Michi ed Ema farà fallire la conceria, perché alla lavorazione delle pelli preferisce la cura dei fiori, il figlio minore, ormai, vive nel suo mondo, l’altro prova ad andare a lavorare sperando di risollevare le sorti dell’attività senza, però, nessun risultato.

Tra flash back di un mondo familiare felice, perduto per sempre, e la vita presente insulsa e inconcludente, la narrazione accompagna il lettore fino alla catastrofe finale.

Marginale la figura del padre, rispetto al rapporto con i figli, quasi non esistessero, parla poco, poco interagisce: preferisce il silenzio. La madre, invece, come viene ricordata con nostalgia dal figlio Michi, era la luce e il calore della famiglia, il centro, la sicurezza. Senza di lei tutto si spezza e rovina. Il ragazzo non solo non ha voglia di lavorare ma è anche incapace di amare. Infatti, sperando di recuperare il tempo perduto, contatta maldestramente, dopo molti anni, un’antica fiamma, Maria, ma la delusione sarà cocente.

La famiglia rimasta senza senso e priva di guida, dopo la sparizione della madre è incapace di vivere, come se avesse perso la bussola. Si parla di vendere, anzi svendere, l’azienda a una ditta emergente e accettare la sconfitta, il fallimento. Ma, una notte, padre e figlio la conceria la fanno esplodere con la dinamite e tutto finisce…

Di nuovo il fuoco, presenza costante del racconto dalla morte del nonno che col fuoco si era uccide.

 L’ambientazione del romanzo è il Comprensorio del cuoio e certamente l’Autore ha voluto sottolineare la conoscenza del mondo delle pelli dove ha lavorato. Ma il libro, secondo me, parla di tutt’altro. Di una famiglia dei giorni d’oggi, inserita in un contesto economico in cui la concorrenza e il raggiungimento di alti standard di benessere possono portare nel bene, ma anche nel male, a scelte radicali di difficile comprensione.

Il capostipite crea un impero, i discendenti sono incapaci di governarlo, le conseguenze disastrose. In molti contesti industriali italiani si sono verificate simili tragedie.

L’Autore esaspera le logiche che sovrintendono allo sviluppo imprenditoriale di quell’area della Toscana, usando un linguaggio visionario, allucinato, espressionista, indugiando talora in uno splatter, secondo me, di dubbio gusto.

 Tra le pagine si nasconde anche una velata trama gialla che rimane non sviluppata…

Molti spunti, forse troppi, in questo romanzo d’esordio…


Gabriele Cavallini, Cuoio, Unici, Einaudi Editore, Torino 2025, pp. 239, euro 18,00

 

14 settembre 2025

" Un giorno tutti diranno di essere stati contro" di Omar El Akkad

 

 


di Giulietta Isola

"Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà alcun rischio personale nel chiamare le cose con il loro nome, quando sarà troppo tardi per ritenere qualcuno responsabile, tutti diranno di essere stati contro...".

       Omar El Akkad è uno scrittore di origine egiziana residente da molti anni negli Stati Uniti. Questo libro è dedicato a noi che da ottobre 2023 siamo qui fermi ad assistere al genocidio dei Palestinesi, le sue pagine affilatissime ci propongono un insolito punto di vista, infatti non parlano di Israele e Hamas, ma parlano di noi che continuiamo a auto-ingannarci per proteggerci dalle nostre responsabilità anche adesso di fronte a questo evento inedito per gravità e proporzioni. 

        La morte crudele e dilaniante di migliaia di civili , la fame usata come strumento di sterminio, le città rase al suolo sembrano essere “un danno collaterale” di fronte ad una causa ben più rilevante per noi occidentali che crediamo di essere portatori di civiltà, democrazia, diritti, promesse di libertà solo fino a quando, per onorare tutte queste belle cose, non è necessario compromettere i nostri interessi personali e collettivi. 

        Omar El Akkad conosce e osserva tutto con il rigore morale del giornalista e, come in un flusso di coscienza, ci sottopone, assieme alle immagini orrende che arrivano da Gaza, le sue riflessioni di uomo arabo e di essere umano davanti a quello spettacolo indicibile. 

        “L’impero” è in azione, l’Europa e gli Stati Uniti hanno perpetrato una disumanizzazione e spersonalizzazione lunga di secoli verso i Palestinesi giudicati meno dignitosi di altre popolazioni, quel mondo dei potenti ha reso nemici gli arabi, sacrificabili, abietti, barbari, terroristi. Davanti al loro sacrificio si fa spallucce con la naturalezza delle cose del mondo, ci si comporta come si fa con le mosche o i topi : li si scaccia. 

       Non trovo parole adeguate a spiegare la barbarie, di fronte al numero infinito di esseri umani uccisi e mutilati, di orfani , di senza tetto, senza scuole, senza ospedali, sono ossessionata dalle urla sotto le macerie, dai neonati condannati a morire di fame e dai cadaveri lasciati in pasto ad avvoltoi e cani. 

        Noi oppressori abbiamo grosse responsabilità, dobbiamo metterci in discussione e guardare con orrore alle parole che sono state spese per rassicurarci e mantenere i nostri privilegi : “il diritto alla difesa”, “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “e allora il 7 ottobre”, sono parole che negano il contesto e la storia di un popolo invisibile, sacrificabile, schiacciato ai margini dell’umanità da decenni di occupazione e umiliazione. 

        Il genocidio in atto del popolo palestinese rappresenta un punto di non ritorno per l'Occidente ed è il ritratto spietato della nostra ipocrisia, stiamo sottoscrivendo il certificato di morte di un’illusione, milioni di persone in tutto il mondo non credono più alle promesse democratiche occidentali di "libertà e giustizia per tutti". 

       Ho ascoltato Omar a Mantova, mi ha molto emozionato il suo discorso, la sua chiara presa di posizione, il suo disgusto e la sua rabbia nel guardare il leader della nazione più potente della terra avallare e finanziare un genocidio. 

      “Un giorno non sarà più possibile distogliere lo sguardo. Ci saranno persone che ogni volta che sentiranno un politico professare la supremazia del diritto internazionale, dei diritti umani, dell’uguaglianza per tutti, udranno solo le urla sotto le macerie… Così come è sempre possibile distogliere lo sguardo, è sempre possibile smettere di farlo… Dobbiamo costruire qualcosa di diverso, oppure correre verso il precipizio… Anche gli atti più piccoli sono importanti.” 

       Leggere questo resoconto di una fine dovrebbe renderci consapevoli di essere giunti a un punto di rottura dopo il quale si dovrebbe definire, se possibile, una nuova identità per l’Occidente che ad oggi non ha lo scopo di opporsi al male o far rispettare il diritto, ma quello di mantenere il potere esistente. Da qui si dovrà ripartire con un macigno sul cuore.

UN GIORNO TUTTI DIRANNO DI ESSERE STATI CONTRO di OMAR EL AKKAD FELTRINELLI GRAMMA

 

09 settembre 2025

"Sonno bianco" di Stefano Corbetta


 di Marigabri

“Mia madre è rimasta al giorno di quella maledetta gita di classe”, continuò restando a testa bassa. “Io esisto solo se esiste Bianca. E a volte penso che abbia ragione”.

Emma e Bianca sono due gemelle identiche, ovviamente molto legate, tra loro solidali e quasi simbiotiche.

Sarà un incidente a separarle, all’età di nove anni. È l’apertura del racconto. Tutto il resto, le 280 pagine di questo libro, sono le dolorose, inevitabili conseguenze di quell’attimo fatale.

Bianca, nomen omen, ora dorme quel sonno bianco da cui non è certo il risveglio. Ha quasi diciott’anni ormai e la sua famiglia, il padre Enrico, la madre Valeria e la sorella, vive nella sospensione a cui quel sonno li costringe tutti.

Ma questa è soprattutto la storia di Emma: una ragazza che osserva la sua famiglia disgregarsi, che è preda dei sensi di colpa e della nostalgia e tuttavia tenta di esprimere i propri talenti e trovare la sua strada verso l’amore condiviso. Come è giusto che sia, alla sua età.

Anche Emma sprofonda nel silenzio e nella lontananza, come Bianca, come sua madre e suo padre. Un silenzio che si traduce in mancanza di comunicazione, forse per l’incapacità di elaborare quel trauma.

Come se un incantesimo li avesse paralizzati tutti, fermandoli a quel momento, a quell’incidente, alla curva del destino che li ha percossi e separati.

Come se la realtà quotidiana fosse semplicemente una dimensione parallela, un movimento automatico dentro uno stato di sogno da cui ogni fuga è preclusa.

Come se il dialogo muto con Bianca che cresce inconsapevole in un letto d’ospedale fosse la sola possibilità rimasta.

La vera magia del romanzo è il modo in cui Stefano Corbetta riesce a raccontare questa situazione, a stabilire un contatto con questo dolore, a seguire l’evolversi dei personaggi, soprattutto di Emma.

Con tratto delicato, con sentimento rispettoso, con pieni e vuoti ben calibrati.

Immergendoci lentamente nella perturbazione dei legami umani, quando l’ombra della sventura ne stringe i nodi e ne allenta le certezze.

 Stefano Corbetta. Sonno bianco. Hacca.