04 ottobre 2009

"Harriet Beecher-Stowe" di Luciano Luciani





Uno strano destino
Strano destino quello toccato ad Harriet Beecher-Stowe e al suo romanzo più famoso, La capanna dello zio Tom: poco più di un secolo e mezzo fa godettero di un’immensa popolarità che travalicò i confini degli Stati Uniti e oggi, invece quel libro e la sua autrice sono dimenticati dai lettori e irrisi dai critici. Addirittura la cultura afroamericana ha assunto il protagonista di quelle pagine come la figura emblematica del nero integrato e imbelle, incapace di concepire e praticare qualsiasi progetto di effettiva liberazione. Eppure, un presidente degli Stati Uniti severo come Abramo Lincoln riconobbe la funzione storica di quel libro nel promuovere la causa dell’ abolizione della schiavitù…

Infanzia, giovinezza e prime esperienze giornalistiche
Harriet Beecher-Stowe nacque il 14 giugno 1811 a Litchfield nel Connecticut. Suo padre Lyman era un religioso, pastore della Chiesa Congregazionalista: un rigido calvinista, piuttosto arcigno in famiglia ma di convinzioni antischiaviste e, in palese contraddizione con tutti i propri modelli di vita, fervente ammiratore del dissoluto lord Byron. La madre Roxana Foote avrebbe forse potuto compensare l’anaffettività paterna, ma disgraziatamente morì quando Harriet, che era la sesta figlia, non aveva ancora quattro anni.
Tutto preso dalle cure del suo ufficio, Lyman non trovava il tempo per dedicarsi all’educazione dei figlioli e così, dopo due anni di vedovanza, tornò a sposarsi: fortunatamente la giovane matrigna si rivelò un’ottima madre per Harriet, dimostrandosi capace dell’affetto e del calore richiesti dalla straordinaria sensibilità della bambina.
Delicata e impressionabile, Harriet trovò nella lettura un formidabile moltiplicatore alle proprie fantasie. Leggeva di tutto: testi religiosi, biografie, racconti storici. Le erano vietati i romanzi, considerati secondo la rigida morale del tempo non adatti a una fanciulla. Gli unici consentiti dall’intransigente genitore erano i romanzi storici di Walter Scott, mentre la futura autrice di best seller si entusiasmava di nascosto alla lettura delle Mille e una notte, scoperto per caso in una soffitta.
Frequentò le scuole di Litchfield, distinguendosi per i rapidi progressi. La stessa Harriet racconta che seduta ben composta nel proprio banco fingeva di svolgere i compiti: invece seguiva interessata le lezioni di storia e retorica che gli insegnanti rivolgevano ai ragazzi più grandi. A soli dodici anni ottenne un riconoscimento pubblico per aver scritto una relazione su un tema indicativo di una grande precocità intellettuale: Si possono ricavare dalla natura le prove dell’immortalità dell’anima?
Incoraggiata da questo primo successo, la ragazza si buttò nello studio. Appena un anno più tardi traduceva Ovidio in versi inglesi e sempre in versi scrisse un dramma, il Cleone del quale abbiamo scarsissime notizie perché non è stato conservato. Sappiamo che doveva trattarsi della storia di un nobile greco alla corte di Nerone, Cleone appunto, che, tra continui scrupoli morali e contraddizioni religiose, finiva naturalmente per convertirsi al cristianesimo.
Ne 1832 Lyman Beecher fu chiamato a Cincinnati per dirigere un seminario e la famiglia lo seguì. In questa città di frontiera Harriet realizzò le sue prime esperienze giornalistiche e letterarie collaborando al “Western Monthly Magazine” e al “Mayflower”.

Un matrimonio senza amore e la scoperta della vocazione letteraria
Nel 1836 Harriet sposò Calvin Ellis Stowe che insegnava letteratura biblica al Lane Theological Seminary, fondato e diretto da Lyman Beecher. Il marito era senz’altro un uomo molto colto e preparato ma a giudicare da quanto Harriet scriveva a un’amica solo poche ore prima delle nozze non può proprio dirsi che si trattasse di un matrimonio d’amore: “Dapprima provai un’apprensione indicibile, e la settimana scorsa non sono mai riuscita a chiudere occhio; non sapevo come avrei subìto questa enorme trasformazione della mia vita. Ora che il momento è giunto, non provo più nulla…” Si può supporre che Harriet acconsentisse a quel matrimonio per non pesare più sulla propria famiglia, numerosa e continuamente alle prese con non facili problemi economici.
I primi anni di matrimonio furono tutt’altro che tranquilli ed Harriet e il marito conobbero povertà e malattie. Fragile, poi, lo stato psicologico di Calvin Stowe.
Ci furono dei giorni in cui i due giovani coniugi non sapevano cosa avrebbero mangiato l’indomani. In frangenti così duri, Harriet dette prova di grandi capacità umane e, mentre la famiglia cresceva fino ad annoverare ben sette figli, seppe anche compiere quelle scelte che decideranno della sua vocazione di scrittrice.
Da tempo era alla ricerca di un modo per accrescere le magre rendite familiari e spesso aveva pensato di utilizzare a questo scopo quella attitudine alla scrittura che tutti le riconoscevano. Così, spinta, dalla necessità e su sollecitazione di alcuni editori amici di famiglia, cominciò a scrivere novelle che ebbero una buona accoglienza. Nonostante le continue preoccupazioni e il poco tempo disponibile, riuscì a produrre anche articoli di costume e racconti che le permisero di guadagnare discretamente e raggiungere una modesta fama letteraria.
Questa fase della vita di Herriet Beecher-Stowe si chiuse tragicamente nel 1849 a causa della morte di un figlio avvenuta nel corso di un’epidemia di colera. Un evento doloroso che venne compensato dal miglioramento della situazione economica della famiglia: infatti, nel 1850 il prof. Stowe fi chiamato a ricoprire la cattedra di teologia presso il Bowdoin College a Brunswick nel Maine.
La raggiunta tranquillità permise ad Harriet una più piena partecipazione alla vita politico-culturale della società americana del suo tempo divisa sulla questione della schiavitù tra abolizionisti e antiabolizionisti.

“Sì, se Dio mi dà vita scriverò un libro”
Proprio alla fine del 1850 il problema si era riacceso a causa della famigerata Fugitive slaw law: nessuno schiavo fuggiasco poteva trovare asilo negli Stati dell’Unione e tutti i cittadini americani erano obbligati a restituire al proprietario ogni schiavo nero fuggito al Nord. Per rendere più malleabili gli eventuali scrupoli morali degli ufficiali pubblici cui competeva la decisione circa il destino dello schiavo era previsto un premio in denaro. Ma, soprattutto negli Stati settentrionali erano in molti a fare obiezione, rifiutandosi non solo di catturare gli schiavi fuggiaschi, ma aiutandoli a raggiungere la libertà in Canada, appoggiandosi alla underground railroad, la “ferrovia sotterranea”, un’organizzazione semiclandestina che favoriva concretamente gli schiavi in fuga.
La Fugitive slave road era una disposizione odiosa che rappresentò un segnale delle persecuzioni crudeli in atto contro la popolazione di colore e commosse fortemente l’opinione pubblica americana… Segnatamente Harriet che già nel 1836 era stata costretta ad assistere a scene che l’avevano turbata e indignata: per esempio, quando la plebaglia eccitata da alcuni ricchi proprietari di schiavi aveva saccheggiato gli uffici e la redazione del “Philantrope”, giornale abolizionista diretto da un amico della famiglia Stowe.
L’appoggio prestato di nascosto dal sindaco della città ai teppisti aveva sollevato la sua indignazione espressa pubblicamente ed energicamente. Quando poi si rese conto che alcuni esponenti del clero non avevano remore a dichiararsi a favore della schiavitù, allora Harriet non esitò e si schierò apertamente dalla parte del partito abolizionista.
La famiglia condivideva e sosteneva le sue idee: Lyman Beecher era un “conduttore” della underground railroad e aveva già messo a repentaglio lapropria vita per favorire la fuga di una donna di colore, vecchia e malata. Poco tempo dopo Harriet riceveva una lettera da sua cognata: “Se avessi una penna eloquente come la tua, scriverei un libro per mostrare alla nazione quale abominio sia la schiavitù”. Raccontano che a questa lettura la giovane donna si alzasse inpiedi ed esclamasse con accento ispirato: “Sì! Se Dio mi dà vita, scriverò un libro”.

La capanna dello zio Tom, un best seller mondiale
Si mise immediatamente al lavoro, raccogliendo informazioni dai documenti e testimonianze orali,inviando ai suoi corrispondenti negli Stati del sud questionari con cui raccolse in breve tempo tutte le notizie occorrenti. Le mancava ancora la scena madre del racconto, la morte di Tom. L’ispirazione le venne una domenica nella chiesa di Brunswick: la vide svolgersi nella sua mente fin nei più minuti particolari e a quella visione fu presa da un’emozione così intensa che represse a stento i singhiozzi. Tornata a casa si mise immediatamente a tavolino e quando ebbe terminato di scrivere quel brano chiamò i suoi e lo lesse loro ad alta voce. L’effetto di quella lettura furono l’evidente dolore e il pianto delle due figlie minori, una di dodici, l’altra di dieci anni.
E non poteva essere diversamente perché, pur con tutti i suoi difetti anche vistosi – un eccessivo sentimentalismo, troppi elementi melodrammatici non sempre ben risolti, personaggi, compreso il protagonista, a volte ridotti a macchiette – La capanna dello zio Tom funziona ancora e rimane un grande romanzo popolare capace di parlare al cuore e alla ragione: “il libro giusto al momento giusto… tutto iscritto nella temperie politica e morale, nella tensione acutissima e nelle lacerazioni profonde che scossero gli Stati Uniti prima e dopo lo scoppio della guerra civile… uno dei capisaldi di tutta la storia letteraria americana… un passaggio obbligato, in ogni ricostruzione che non avvenga meramente per vertici estetici” (Vito Amoroso).
La capanna dello zio Tom è il primo lavoro di una certa mole scritto dalla Beecher- Stowe ed è anche il primo volume in cui la scrittrice abbia fatto insieme opera di romanziere e polemista. Il romanzo uscì a puntate, secondo le abitudini editoriali di allora, tra il giugno 1851 e l’aprile 1852 sulle pagine della rivista abolizionista “National Era”, che si pubblicava a Washington. In origine doveva svilupparsi nell’arco di dodici puntate, ma, strada facendo l’autrice trovava continuamente nuovi spunti in favore della sua causa e così la stesura definitiva superò ampiamente i limiti fissati.
Prima ancora che la pubblicazione fosse pronta la scrittrice aveva ricevuto offerte da parecchi editori che desideravano pubblicare il romanzo in volume. Finì per impegnarsi con John P. Jewet di Boston che le garantì il 10% sul ricavato delle vendite.
20 marzo 1852: furono più di tremila le copie vendute il primo giorno in cui La capanna dello zio Tom apparve nelle librerie e si arrivò subito a esaurire le diecimila previste per la prima edizione. il 1 aprile si cominciava già a tirare la seconda edizione. I torchi tipografici lavorarono ininterrottamente e alla fine dell’anno le copie stampate erano oltre 300.000. Il successo del libro non si arrestò agli Stati Uniti, ma valicò l’Atlantico: nel 1852 erano 40 le edizioni pubblicate in vari formati in Inghilterra e traduzioni apparvero in Francia e Prussia. Ancora pochi mesi e il romanzo veniva tradotto in oltre venti lingue tra cui l’araba, l’armena, la cinese, la malese… Intanto, all’insaputa dell’autrice, dal romanzo veniva tratta una piece teatrale rappresentata con successo negli Stati Uniti e nelle principali città d’Europa.

Non si era mai visto un tale evento editoriale, letterario, culturale e il nome di Harriet Beecher-Stowe era ormai celebre in tutto il mondo.
Anche la critica, pur sollevando alcune riserve sullo stile, accolse il libro con simpatia e attenzione. Tutti negativi, ovviamente i giudizi sul romanzo negli stati del sud. Il partito contrario all’abolizione della schiavitù avviò una campagna di diffamazione e di ingiurie nei confronti della scrittrice., “un sudista dichiarò che Uncle Tom’s cabin non dimostrava alcuna conoscenza dei negri, non più di quanta se ne potesse trovare nell’almanacco nautico” (M. Cunliffe).
Una certa signora Eastmann volle contrapporre addirittura romanzo a romanzo e pubblicò un libro intitolato La capanna della zia Philis, ovvero la vita nel Sud com’è realmente riuscendo solo a coprirsi di ridicolo. Ma anche a New York il più diffuso giornale religioso della città non esitò a definire anticristian le pagine della Beecher-Stowe.
Imperterrita la scrittrice continuava a ricevere lodi e complimenti dai più importanti letterati e uomini politici d’Europa e d’America. Lord Carlisle in una lettera si felicitava con lei per aver scritto “la vera epopea del mondo moderno”; Gladstone si commosse fino alle lagrime sulle sue pagine e Palmerston affermò di aver letto La capanna dello zio Tom almeno tre volte. Osannata Harriet, ma anche criticata. Infatti, a parere di non pochi lettori e recensori la romanziera aveva esagerato gli orrori della schiavitù per portare acqua al mulino della causa abolizionista. La scrittrice rispose allora con un altro libro, La chiave della capanna dello zio Tom, assai documentato, in cui rispondeva punto per punto alle critiche che le erano state rivolte, provando con la forza dei dati l’esattezza delle proprie asserzioni e reclamando con ancora maggior forza una riforma nella condizione degli schiavi.

La piccola signora che ha fatto scoppiare una grande guerra
Intanto l’agitazione antischiavista suscitata e tenuta desta da Harriet e dai suoi compagni di fede stava per dare i suoi frutti: la guerra tra gli stati del nord e quelli del sud scoppiò nel 1860 per durare ben cinque anni. La Stowe accolse con soddisfazione la dichiarazione di guerra, un conflitto che ai suoi occhi assumeva i connotati di una lotta tra Bene e Male.
I suoi convincimenti in favore della guerra non le facevano dimenticare gli orrori che rappresentano il necessario corollario di ogni evento bellico, ma Harriet interpretava il sangue americano che stava per essere versato in quella circostanza come la doverosa espiazione del sangue africano fatto scorrere per secoli dagli schiavisti nel suo paese.
Al termine del conflitto Abramo Lincoln volle conoscerla e la definì “la piccola signora che ha vinto la guerra”. Intensa ed ininterrotta, nel frattempo, al ritmo di un libro l’anno la sua produzione letteraria: nel 1862 pubblicò The Pearl of Orr’s Island; nel 1869 Oldtown Folks, nel 1878 Poganuc People; romanzi e storie legate alla propria infanzia e alla giovinezza rivissute con acuta e intima partecipazione.
Altri problemi diversi da quelli squisitamente letterari videro in prima fila Harriet. La Stowe, infatti, non rimase indifferente alle grandi miserie materiali e morali che la guerra civile aveva lasciato dietro di sé. Decise, allora, di dedicare il resto della sua vita a istruire ed educare quel popolo nero al cui affrancamento aveva così potentemente contribuito. A questo scopo acquistò a Mandarin in Florida una magnifica tenuta e i momenti più sereni della sua vita furono quelli trascorsi sotto la veranda della sua villa impegnata a rispondere alle innumerevoli lettere che continuavano ad arrivarle da ogni parte del mondo.
In occasione del suo settantesimo compleanno i suoi editori organizzarono una grande festa: quel giorno più di duecento tra scrittori e giornalisti americani le indirizzarono un saluto augurale espresso intermini entusiastici. Ma ad Harriet queste manifestazioni di stima e affetto non davano – sono le sue parole - tanta gioia quanto il sorriso di felicità di un negro liberato che finalmente era nelle condizioni di poter affermare “Ho venti capi di bestiame, quattro cavalli, quaranta polli e dieci figli. E tutto ciò e mio, proprio mio!”.
Morì a Mandarin il 1 luglio 1896