24 ottobre 2009

"Aldo Capitini e la colonna sonora della prima marcia per la pace Perugia - Assisi" di Luciano Luciani


VERSI POLEMICI, MA PIENI DI PASSIONE CIVILE

La prima Marcia per la pace da Perugia ad Assisi
La bandiera della pace, quella con i colori dell’arcobaleno, ebbe il suo battesimo italiano in occasione della prima marcia Perugia – Assisi per la pace e la fratellanza tra i popoli. Era il 24 settembre 1961 e la promuoveva Aldo Capitini (Perugia, 1899 – ivi, 1968), straordinaria figura di filosofo, studioso di San Francesco, Gesù Cristo, Buddha, Gandhi, educatore, teorico della non violenza. L’iniziativa cadeva in un momento in cui la politica internazionale sembrava avvitarsi nella spirale della ennesima, preoccupante crisi: la guerra fredda, infatti, ovvero il contrasto globale sviluppatosi dopo la II guerra mondiale tra mondo comunista e mondo liberaldemocratico, dopo le speranze legate alla destalinizzazione e alla conseguente politica di distensione, conosceva, ancora una volta, inquietanti ritorni alla tensione degli anni precedenti. Si cronicizzavano le guerre locali nel Medio Oriente e in Africa, iniziava la guerra del Vietnam e non venivano meno politiche di riarmo e la corsa agli armamenti sia convenzionali sia nucleari. C’era ancora di che essere preoccupati per le sorti del mondo e l’iniziativa di Capitini intendeva dare voce a questo turbamento diffuso delle coscienze.

“Quando, nella primavera del ‘60”, ricorda Capitini in Opposizione e liberazione, “feci a Perugia un bilancio delle iniziative prese e di quelle possibili, vidi che l’idea della marcia, soprattutto popolare e regionale, piacque. Ma solo nell’estate essa prese un corpo preciso in riunioni apposite, che portarono alla fondazione di un comitato d’iniziativa… Come avrei potuto diffondere la notizia che la pace è in pericolo, come avrei potuto destare la consapevolezza della gente più periferica, se non ricorrendo all’aiuto di altri e impostando una manifestazione elementare come è una marcia?”

Camminare e cantare
Marciare, ovvero camminare in gruppo e nella stessa direzione: un atto semplice, elementare, eppure carico di fortissime valenze simboliche. Perché compiuto nella terra che fu di San Francesco, culla di una proposta cristiana sostanziata di povertà, mitezza e rifiuto di ogni logica di potere; perché non si rimane inattivi di fronte all’ingiustizia, non si sta fermi, ma si cammina. E soprattutto, non da soli, ma insieme, credenti e non credenti, affratellati dai colori dell’iride della bandiera della pace, rappresentazione di perdono e riconciliazione unanimemente accettata presso tutte le culture. Così come, fin dagli anni di Aristotele, è acquisita l’idea che camminare in compagnia, favorisca lo scambio delle idee, la discussione… e il canto, assecondato proprio dalla cadenza propria del passo della marcia. Ed è in questo contesto che nasce quella che è generalmente conosciuta come la più bella, combattiva, beffarda canzone di protesta antimilitarista del movimento per la pace, ancora oggi conosciuta e intonata in occasione di meeting e iniziative pacifiste. Si tratta di un breve testo con due padre nobili, che, si racconta improvvisassero, appunto camminando, lungo tutti i 24 chilometri del percorso: Franco Fortini (Firenze 1917 – Milano 1994), poeta, letterato, critico militante per le parole e per la musica Fausto Amodei (Torino,1934), cantautore civilmente impegnato, fondatore del “Cantacronache” e autore con Per i morti di Reggio Emilia della più bella canzone politica di quegli anni.

Canzone della marcia della pace.

E se Berlino chiama
ditele che s’impicchi
crepare per i ricchi
no! non ci garba più.


E se la Nato chiama
ditele che ripassi
lo sanno pure i sassi
non ci si crede più.

Se la ragazza chiama
non fatela aspettare
servizio militare
solo con lei farò.

E se la patria chiama
lasciatela chiamare:
oltre le Alpi e il mare
un’altra patria c’è.

E se la patria chiede
di offrirgli la tua vita
rispondi che la vita
per ora serve a te.

La canzone piacque
La canzone piacque e circolò, circolò, circolò… fino a raggiungere le sensibili orecchie del dott. Pasquale Carcasio, magistrato in servizio presso la procura della Repubblica di Milano che il 29 dicembre 1965 “Esaminato il disco in questione e constatato che nelle parole della canzone ‘La marcia della pace’ è insita una pubblica istigazione rivolta ai militari per disobbedire alle leggi;…ordina il sequestro, ovunque si trovi in deposito, in distribuzione, in vendita del disco…”
Si noti che appena pochi mesi prima la Canzone della marcia della pace aveva ricevuto attenzioni che erano arrivate sino ai più alti vertici istituzionali: un senatore del Movimento sociale italiano, infatti, aveva pensato bene di rivolgere un’interrogazione al Ministro della Difesa del tempo, Giulio Andreotti “per sapere se conosca che è in libera vendita un microsolco di cinico incitamento a disprezzare in pace e in guerra il dovere militare; se non intende stroncare con il sequestro tale propaganda”. Detto, fatto.
Sì, proprio questo è il buio che abbiamo attraversato!

Aldo Capitini, un intellettuale solitario

Ilare e irriverente, la Canzone della marcia della pace esprime bene l’entusiasmo che caratterizzò questa prima edizione di una manifestazione che ebbe, allora, un grande successo (oltre 30.000 presenze) e che era destinata a un futuro che arriva sino ai giorni nostri. Non mancarono, però, dubbi e distinguo anche tra le stesse fila della sinistra che pure aveva aderito all’iniziativa. Il pacifismo del Partito comunista, per esempio, non andava oltre la concezione togliattiana di un equilibrio tra potenze e il mantenimento dello status quo: e Capitini, che “parlava di nonviolenza quando la lotta armata sembrava essere l’unica via di ribellione, evidenziava i contrasti fra il nord e il sud del mondo quando tutti si fermavano alla contrapposizione fra i blocchi dell’est e dell’ovest e lottava contemporaneamente contro l’assoluto del potere (l’Unione Sovietica) e l’assoluto del benessere (gli Stati Uniti d’America) quando ognuno cercava di assimilarsi ai feticci proposti dalle ideologie dello Stato o del consumo” (Albesano), rimane, come confesserà dalla pagine dell’”Unità” a quasi vent’anni dalla sua morte il filosofo marxista Aldo Zanardo, “un uomo che non sapemmo capire abbastanza”.

Sopportato e/o utilizzato tatticamente dalla sinistra marxista, Capitini non trovò interlocutori neppure tra i laici di sinistra, pochi e per di più “arroccati al loro perbenismo piuttosto classista” (Fofi). Né maggior conforto poteva venirgli dalla Chiesa e dal mondo cattolico ufficiale e istituzionale: nel 1955 la Sacra Congregazione del Santo Uffizio aveva condannato “in indicem librorum prohibitorum” il testo più noto di Capitini, Religione aperta, e la Democrazia cristiana, saldamente al potere in Italia dal ’48 in poi, non perdonava al filosofo perugino la sua contiguità alla sinistra. Rimanevano i cattolici irregolari, quelli ‘di periferia’, ma capaci di intuizioni ed esperienze profetiche: La Pira, don Mazzolari, Nomadelfia, don Milani, le cui Esperienze pastorali, uscite nel 1958, furono definite da Capitini “il più bel libro che un cattolico italiano ci abbia dato in questo secolo”. Ammirazione, rispetto, qualche lotta in comune anche con questi interlocutori contro lo strapotere clericale della chiesa di Pio XII, ma Capitini rimase un pensatore isolato: uno spirito religioso senza chiesa, un organizzatore senza organizzazioni di partito, un profeta disarmato. Gli si attaglia alla perfezione l’epigrafe, dettata da Walter Binni, perugino come lui, storico e critico della letteratura, che compare sulla lapide della sua tomba nel cimitero di Perugia.”Libero religioso e rivoluzionario non violento”.