16 settembre 2012

"Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base" di Guido Davico Bonino


di Davide Pugnana

Al di là delle pubbliche confessioni, e persino delle chiese
segrete, si forma in ogni lettore, via via che il tempo sfolla
e arricchisce la sua memoria, una serie di piccole, imprevedibili
antologie. Nessuna stella polare guidò la scelta di quelle pagine,
che spesso non sono, né per spirito né per stile, di quelle che,
al primo incontro, egli riconosce per sue. Una seconda forza
adamantina, le attirò insieme, le costellò di Pleiade bizzarre,
in quella zona della mente dove gli echi inattesi - l’urto dell’atollo
contro la chiglia - hanno il compito di rivelarci sopra noi stessi
più di quanto non consentiamo a sapere.(Cristina Campo)


Tansillo, Giambattista Gelli, Francesco Maria Zanotti, Testi, Guidi, De Lemene, Benedetto Menzini: niente più che una catena di nomi e cognomi, sciorinati ad elenco; quasi caduti fuori dal tempo immobile ed effimero di una rubrica qualunque. Questi nomi diranno poco o nulla al lettore di oggi; probabilmente avevano già smesso di parlare ai lettori del Novecento. E forse, spingendoci ancora più addietro, apparivano larve che si aggrumavano in confusa ricordanza persino nelle menti più fresche di quei lettori di primo Ottocento che, nel 1828, si trovarono a sfogliare le pagine della Crestomazia poetica, un’impresa che Leopardi aveva composto durante il soggiorno pisano tra il 1827 e il 1828, e che costituiva il secondo tempo di un lavorio antologico che aveva già dato il prezioso frutto della prosa. Ma rispetto ai fiori narrativi della prima, questa volta Leopardi si ripresentava ai lettori con una bizzarra scelta di poeti, fortemente voluta dall’editore Antonio Fortunato Stella e la cui adunanza formava una galleria densa di presenze oscure, come il coro delle mummie che cantano versi meravigliosi e terribili nella penombra dello studio di Federico Ruysch. E non dissimile da quello dell’imbalsamatore doveva essere stato lo stupore del lettore dell’Ottocento davanti al coro di poeti sconosciuti. “Diamine! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano di mezza notte come galli?” Ripetiamo spesso l’esclamazione di Ruysch, anche nell’oggi, quasi ad ogni bilancio storico-letterario, disegnato nella speranza di mappare le poetiche del nostro tempo e, attorno alla loro fluidità liquida, erigere argini robusti che sappiano essere orizzonti di senso contro la debordante illeggibilità orfica di tanta poesia contemporanea. 

La Crestomazia poetica si offriva, quindi, come una scelta di poeti border-line, fuori moda della tradizione letteraria italiana, situati sui bordi marginali dell’editoria e del gusto corrente. Ciò dovette suscitare non poche polemiche nel mondo delle lettere, amplificate dalla fama del compilatore. La stessa finezza etimologica del sostantivo leopardiano doveva rifulgere in negativo, poiché nel lemma aulico ’crestomazia’, che ci limitiamo a tradurre come sinonimo di “antologia”, vi era riposta una radice di senso che ben suggeriva l’intento educativo rivolto al bon gout del lettore colto: quello cioè di un criterio di selezione orientato ad un fine estetico e pratico insieme: l‘ “apprendimento delle cose utili”. Le scarne righe di preambolo alla Crestomazia poetica sono un documento preziosissimo per capire i criteri che hanno guidato il Leopardi nelle scelte. 

Il primo  intento era quello di un’antologia che facesse conoscere il panorama della poesia lirica minore, la quale più che ad una funzione quantitativa era promossa a polo di attrazione intorno a cui far gravitare l’intera scelta poetica leopardiana. Gli esempi dei minori che l’antologista trascelse costituì, in realtà, un insieme di esperienze letterarie e poetiche senza le quali, evidentemente, neppure il discorso sui maggiori avrebbe avuto possibilità di esistere. Prendeva corpo così l’immagine complessiva di una tradizione poetica colta d’en bas, secondo una prospettiva obliqua; ma tesa a restituire lo sviluppo storico delle poetiche, l’evoluzione dei generi e l’impiego dei metri e dei temi seguiti però lungo il corso laterale dei rivoli. 

Il risultato dell’operazione leopardiana è quella di averci resi esteticamente fruibili autori del tutto minori o trascurati, come, per fare un esempio tra i numerosi altri possibili, Serafino d’Aquila o il Fortiguerri, presentati sotto una luce che genera nel lettore un’impressione del tutto favorevole. Di una certa portata innovativa fu anche la scelta di offrire un’antologia priva di note, se non là dove fossero strettamente necessarie a livello linguistico: quella che poteva apparire trascuratezza filologica si rivelava pregio notevole, poiché abolendo un imponente corredo di riferimenti extratestuali il lettore veniva sollecitato ad un contatto vergine con i brani poetici presentati.

La tentazione dell’antologia è un portato soprattutto moderno. Nasce da un impulso ordinatore che, prima o poi, assale tutti i tipi di lettori: da quelli che lo fanno per mestiere al lettore comune, preda di un’innata e inestinguibile febbre umanistica. L’antologia sottintende l’idea taumaturgica di poter racchiudere nello spazio di un volume, centripeto e percorribile, il laborioso lavorio di scoperta e scrematura degli autori e delle opere che vanno ad incunearsi nei giorni e nelle ore di silenzio del lettore, nella luce di una precisa e intensa piega biografica dell’antologista. Proprio per questo senso di intima appartenenza, il lievito di ogni antologia è il sogno autobiografico di un microcosmo in cui tornare a rispecchiarsi con tutto il carico del proprio folle volo di conoscenza, non importa se piccolo o grande, purché mantenga la fiamma vitale delle radici, la loro ricerca  (come suggerisce il titolo di  una della più belle antologie del Novecento, quella di Primo Levi, La ricerca delle radici) attraverso una tradizione di voci che la scuola, l’incontro eccezionale con i maestri, o la bussola dell’intuizione e della solitaria curiosità, hanno immesso nella nostra vita. 

La compilazione delle antologie non è mai un terreno neutrale; in esse rifluiscono gli autori dei quali ci sentiamo figli adottivi o nipoti; libri che portano impressa a fuoco la cifra della nostra formazione giovanile; titoli dotati del potere delle agnizioni; pagine che sentiamo di dover rileggere ad ogni torno di generazione, e, soprattutto, parole, parole porosissime di valenze semantiche che hanno strutturato il nostro universo concettuale e irrigato il nostro linguaggio. Questa sostanza umana che permea di sé il più arido elenco di nomi e di testi è il senso più alto dell’antologia come genere insieme didattico-divulgativo e intimamente autobiografico. Da sempre, in molte soffitte, scrittoi, biblioteche private, interstizi di scaffali, in semplici quaderni a righe sono racchiusi sconfinati depositi e telegrafici registrazioni di brani ricopiati in bella grafia: collane di versi, talora chiosate, ancorate ad una data ed un luogo; frasi-guida cerchiate o sottolineate perché hanno disbrogliato un dilemma antico o hanno rischiarato una stagione di vita. In parte, se vogliamo, è questo il nocciolo segreto del gusto, tutt’altro che erudito ed antiquario, di compulsare i cataloghi, i dizionari, le enciclopedie: la pazienza di andare a scovare quelle sezioni gremite di presenze inattese, e lì scoprire i libri i cui soli titoli ci spingono ad evadere verso il desiderio di possederli tutti. 

Proviamo con un altro elenco: Federico Verdinois, Cesare Pescarella, Carlo Vallini, Libero Bigiaretti, Paola Masino, Vittorio Clemente, Bartolo Cattaffi, Adriano Spatola, Mario Pomilio, Gregorio Scalise, Franca Grisoni, Claudio Piersanti, Luca Doninelli. Anche qui, come nel caso dell’antologia leopardiana, assunta come ideale prototipo, l’effetto è quello di un manipolo di nomi che non suggeriscono nulla; che non stimolano nessuna memoria; nessun titolo d‘opera che suoni immediatamente familiare. Sono presenze perturbanti, sommerse dal tempo e dall’oblio. Eppure l’ultimo di questi, quello del Doninelli, risale ad una pubblicazioni recente (1990). Ricollocati nel loro contesto, questi nomi vengono a comporre la rosa di autori della raccolta di Guido Davico Bonino dedicata ai poeti e ai narratori che hanno fatto il Novecento italiano. La scelta cronologica si estende su ampie campiture: si va dal 1885 al 1990, secondo una periodizzazione che Davico Bonino misura a partire dagli ultimi quindici anni dell’Ottocento agli ultimi venti del Novecento, e che affida ai due brevi scritti di prologo e di epilogo di Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base, Einaudi, 2008, euro 14,50, pp. 388. Parte dei criteri di selezione di Davico Bonino sono vicini a quelli leopardiani, come documenta l’esempio dei nomi estrapolati a caso dalla raccolta. Ma nel caso di Novecento italiano non ci muoviamo esclusivamente nei modi e nelle forme del genere antologico; la sua portata saggistica si spinge al di là della citazione di brani significativi, i quali sono peraltro assenti nella loro veste tradizionali di ‘fiori‘ trascelti dalla tradizione; e arriva cioè ad inglobare tre livelli, sui quali si struttura l’intera raccolta: il prontuario, come contenitore complessivo; il diario intellettuale, come sostrato autobiografico dell’antologista; e il singolo medaglione dentro cui fluisce e si fissa il profilo del giudizio elegante. Come nel caso della parola crestomazia, anche prontuario ha un suo spessore etimologico: l’origine latina del sostantivo neutro è “promptuarium” che significa “armadio, dispensa”, luogo fisico dove si chiudono e conservano cose, per custodirle e salvarle dalla dispersione; ma altresì immagine spaziale che richiama l’idea di nicchia, e, secondo una metafora enciclopedica, manuale contenente le nozioni fondamentali di una  specifica disciplina, disposte in modo tale da rendere agevole la ricerca o la consultazione. Nel prontuario di cose letterarie raccolte e ordinate da Davico Bonino troviamo autori, sia maggiori sia minori, ordinati in ordine cronologico e contrassegnati secondo il genere dell’opera, o narrativo o poetico.

Nell’inesauribile catasto della letteratura novecentesca, perennemente riordinato e ancora da riordinare, l’autore trasceglie i libri canonici, le voci possenti dei classici entrati nella tradizioni come i ‘maggiori’, senza i quali l’educazione alla letteratura e la formazione della biblioteca risulterebbe desultoria e lacunosa: troviamo Il piacere e l’Alcyone di D’Annunzio;  Myricae e Canti di Castelvecchio di Pascoli; Il codice di Perelà di Palazzeschi; Il podere di Tozzi; La coscienza di Zeno; e poi le memorabili narrazioni di Anna Banti, Mario Soldati, Gianna Manzini, Tomasi di Lampedusa, Luigi Meneghello e Giorgio Manganelli, fino ad Ennio Flaiano e Lalla Romano, e ai dimenticati in vita Guido Morselli e Stefano D’Arrigo, per citare, sfogliando a caldo, i più vistosi. Così accadde sull’asse della poesia: dai poeti fin de siécle a Saba, Ungaretti, Montale, Caproni, Bertolucci e Giudici, Zanzotto, si attraversa l’intero Novecento lirico in lingua, senza trascurare la preziosa linea della poesia dialettale, da Giacomo Noventa a Paolo Bertolani a Biagio Marin. 

Ma il vero spazio privilegiato Davico Bonino lo riserva ai testi passati in sordina; ai derelitti rimasti fuori dal recinto ufficiale delle storie letterarie; agli sbilanciati rispetto alle grandi codificazioni della critica. È proprio questo secondo continente sepolto che il prontuario di Davico Bonino ha il merito di mettere in luce, offrendo al lettore, nelle sue impreviste scorrerie, la bussola e la mappa di un Novecento letterario notturno. L’antologista rende giustizia ai randagi e ai negletti, a quei poeti e narratori isolati come frammenti laterali di una storia letteraria non scritta, punteggiata di titoli la cui assenza si avverte, anello dopo anello. È il coro dei ’minori’ a costituire la spina dorsale di Novecento italiano. Come ogni antologia e ogni storia letteraria, anche questo prontuario presuppone il confronto dialettico con un canone ufficiale, costituitosi tra manualistica e storiografia: quel “grande padre” che le generazioni hanno contestato, modificato e riassestato, mentre parallelamente il corso della letteratura continuava ad essere spostato come il corso di un fiume. Scrive Claudio Magris in Rami di un medesimo tronco (ora in Alfabeti, Garzanti 2008, p.24): “Anche la più completa e intelligente storia letteraria ha le sue chiusure; l’ideale etico-civile-passionale di De Sanctis non potrebbe mai rendere giustizia a Kafka e ai reietti e randagi poeti dell’assenza, colonne della letteratura moderna, costituita da frammenti laterali e priva di un saldo centro, e di cui forse non si può fare storia in modo classico. Ogni storiografia letteraria è destinata a generare i ’grandi dimenticati’ rivendicati con tanta forza da Ermanno Zaccagnini e destinati a riemergere nella loro grandezza, come i molti autori ritrovati da Guido Davico Bonino in quel felice ’prontuario’ che è il suo Novecento italiano.”

Il prontuario di autori di Davico Bonino non squaderna il Novecento letterario inseguendo l’ideologia del suo autore, né ricerca l’utopia consolatrice ed esaltante di un policentrismo mappabile secondo geografia e centro, tendenze di poetica e capolavori; la sua cifra, al contrario, è riportare, sotto la luce del presente, una zona sommersa di nomi e di opere che per quanto figlie legittime di un secolo vivo e pulsante alle nostre spalle, abbiamo dimenticato. Ma questo è l’alone poetico delle antologie, la loro lotta per scoprire le voci che, sepolte, resistono al tempo; quelle pagine e quei personaggi che spingono il loro mormorio dentro il secolo magari dalle penombre delle biblioteche comunali; o sopravvivono in qualche erudito repertorio di nomi e di titoli bibliografici che sono una manzoniana guerra illustre contro il tempo e che, pur nella bidimensionalità dell’elenco, trasmettono il senso della complessità del secolo, della varietà delle sue forme.

Davico Bonino disseppellisce i ‘minori’ togliendoli dai bordi sfrangiati degli ultimi e dall’aridità del repertorio ridonandogli corpo e sangue attraverso una galleria di medaglioni. Medaglioni che non si offrono come il frutto di un abitudine al commento critico scaltrito dall’esperienza; né seguono altra narrazione storica che non sia il lineare filo cronologico. Essi sono come delle giare al cui interno si raccoglie il distillato della lunga frequentazione degli autori amati e sono, al contempo, il portato elegiaco di un amore umanistico per i testi ufficiali e non ufficiali della storia letteraria italiana. Al loro interno, come in un nicchia, l’antologista deposita il cuore pulsante del libro, la cifra di unicità per la quale occorre ricordarli e tornarli a leggere; fino a consegnarci, in filigrana, un ritratto in piedi dell’autore lavorato in punta di bulino.

Qualche essais tra i più significativi. Il prontuario si apre proprio con l’opera di un minore, La canaglia felice di Cletto Arrighi (alias Carlo Righetti) del 1885: “intrigante romanzo del milanese Righetti, eroico ’dragone lombardo’ contro gli Austriaci e poi indaffaratissimo giornalista, cui dobbiamo la ‘ripresa’ del termine ’scapigliatura’ in un suo giovani romanzo (Gli ultimi coriandoli, dedicato nel 1856 al Manzoni). Il termine ebbe successo tanto che Cletto lo adottò nel titolo del successivo (1862) ’romanzo contemporaneo’ La Scapigliatura e il 6 febbraio (Un dramma di famiglia). Questo vorrebbe esserne il seguito, ma si legge con gusto in sé e per sé. Le ’canaglie’ sono persone moralmente spregevoli a qualunque ceto appartengano: e a Milano abbondavano nell’aristocrazia, come il conte Sparvieri, nel popolino, come l’ex commessa di sartoria Bigietta, sua amante, e come il ganzo di lei, quello spilungone dello Sganzerla, un locch, cioè un balordo, un ozioso e vagabondo. Non manca il borghese, l’ex torinese Carlo Rey, che - per godersi la Bigietta - si traveste da canaglia. La ritroverà in un letto d’ospedale, accoltellata dal suo drudo. Il moralismo di molte pagine è debordante, ma i ritratti d’ambiente hanno un che di asprigno, che finisce per coinvolgere.” Anche per i primi vent’anni del Novecento gli esempi notevoli tra i dimenticati non mancano. Davico Bonino ricorda l’Antologia apocrifa (1927) del torinese Paolo Vita-Finzi: “Vita-Finzi imboccò la carriera diplomatica e fu nostro rappresentante nelle più diverse sedi, da Mosca a Buenos Aires. […] Ma dal 1925 aveva ripreso a pubblicare su ’L’Italia che scrive’ impeccabili parodie dei nostri ’classici moderni’ (Pascoli, il divino Gabriele, il malinconico Guidog), dei poeti suoi contemporanei (Ungaretti e Montale), dei filosofi (Croce e Gentile), dei critici (Cecchi e Praz), spaziando dalla narrativa ’sublime’ (l’impervio Gadda) alla ’bassa e stagnante’ (Guido da Verona). Il tutto con un’impareggiabile leggerezza di tocco, frutto di minuziose letture e riletture, sino all’inattesa ’stoccata’ finale: com’è nella consuetudine dei migliori fiorettisti.”. Altrettanto interessante è il caso di Lorenzo Montano, autore veronese, nato da madre russa e padre austriaco (il suo vero cognome è Lebrecht), autore di un romanzo dimenticato ma singolare: Viaggio attraverso la gioventù secondo un itinerario recente, pubblicato lo stesso anno della Coscienza di Zeno, nel 1923: “Questo romanzo, dalla raffinata scrittura e dalle altrettanto raffinate ascendenze (tra la Francia e l’Inghilterra del romanzo epistolare, oltre al Goethe delle Affinità elettive, come ha osservato uno specialista, Gian Paolo Marchi), si ’fonda’ sul supposto diario di ’uno di quei bighelloni e  perdigiorni di che purtroppo è pieno il mondo’: un viaggiatore irrequieto, che, sullo sfondo d’una cittadina di provincia, ama, in successione, due donne assai diverse tra loro, Biancanera e Delfina: con l’inserimento tra le due di una moderna etéra, Floriana. Come il viaggiatore, anche l’Eros dilegua (è questo uno dei motivi più fascinosi del libro) insieme all’irrecuperabile gioventù: “Finità?…Questo breve tumulto d’ombre come passioni, incoerenti, fuggite, sarebbero stata la gioventù? Essa proprio.” 

Saltando negli anni Quaranta, ci viene incontro il lucchese Arrigo Benedetti con Una donna all’inferno (1944): “Questa sua terza raccolta di racconti è illuminata dalla novella splendida, a cui s’intitola: il riesame, post mortem, dell’esistenza terrena di Caterina, diversa da tutte le altre del paese, tanto da meritarsi, ancora viva quella tenebrosa destinazione finale. Ma cosa ha commesso, dalla nascita al trapasso, quella tanto conclamata ’peccatrice’? Forse è stata, semplicemente, una tempra più forte di quella delle vicine, epperciò è parsa a tutti una ribelle, addirittura una ’diversa’. Gianfranco Contini, nell’individuare le ’genuine qualità’ di questo narratore poco più che trentenne […] segnala ‘tra gli eccellenti del secolo’ un altro racconto della silloge, Un prato: una ragazza, intenta a leggere in uno spazio erboso, dove alcune mamme portano i bimbi a giocare, altri riposano e  giovani di passaggio la guardano ammirati: una sorta di mirabile ’piano-sequenza’, per servirci del lessico cinematografico.”. 

Per gli anni Sessanta, Davico Bonino sceglie un’opera dal significativo titolo di Pseudobaudelaire (1964) del parmense Corrado Costa, che fondò la rivista sperimentale “Malebolge” con alcuni rappresentanti del Gruppo 63: “Vicino per affinità elettive e per appassionate letture alle esperienze di scrittura automatica e collettiva, dei surrealisti francesi, Costa in questa - che è la prima di sei sillogi poetiche, realizzate da solo o con altri poeti […] - persegue un’idea di lirica come ’sogno ad occhi aperti’, in cui le immagini si dispongono secondo linee orizzontali in apparente disomogeneità: mentre, in realtà (nella realtà prelogica delle visioni), esse ubbidiscono ad una stringente logica della concatenazione; e, per lo più, da immagine di apparente ‘soavità naturale’ (d’improvviso la rosa che comincia a ridere / apre e chiude la bocca: / un giorno (il giorno come questo) s’incammina / ai lati del giardino…) si può essere costretti a trascorrere ad immagini di drammatica crudezza : “Il giovane dal cuore fucilato/ compie diciotto anni sotto la riva del fiume/ la sua vita continua/ nei giorni che non nascono mai…” 

Per gli anni Ottanta e Novanta, infine, gli esempi si infittiscono. Due, tra i molti che Davico Bonino allinea rispettivamente per la poesia e per la prosa, potrebbero incuriosire il lettore: la poetessa messinese Jolanda Insana, insegnante e traduttrice di alcuni lirici greci, la quale, collocata tra Andrea De Carlo ed Edoardo Sanguineti, compare con il suggestivo titolo di  Fendenti fonici 1979-1980 (1882), “Questa sua seconda raccolta è, a nostro avviso, fortemente indicativa di quella che una giovane studiosa, Raffaella Scarpa, ha definito come ’ volontà di rendere in poesia non semplicemente la realtà, ma gli effetti del suo carico’. Ma di cosa il reale assomma la poetessa e in che modo l’esercizio della poesia la sgrava di tanto peso?”; mentre sul versante della narrativa, al 1990 risale I due fratelli del bresciano Luca Doninelli: “Questo suo libro d’esordio.’che immediatamente abbagliò la critica per la sua densità etica e tragica’ (per citare un critico-narratore Paolo Di Stefano), si componeva di due romanzi brevi. Fu il primo […] ed eponimo a colpire i lettori di professione. È la scabra storia di un rapporto difficile, anzi impervio, tra padre e figlio. Il primo, un giudice a riposo, ormai ottantenne, persuade con sempre maggior frequenza il secondo a lunghe passeggiate, a gite sul lago. Vuole, forse per la prima volta, parlargli a cuor aperto. C’è un segreto che lo attanaglia: è stato sposato una prima volta (chi ascolta non sapeva), ha avuto un figlio, William: costui voleva da adolescente farsi prete, il padre glielo impedì, lo strappò al collegio, lo lasciò morire, forse lo indusse al suicidio. L’altro, dinanzi a quell’uomo da poco, dalle mani tremanti da vecchio, che tuttavia ha avuto in extremis il coraggio di vomitare fuori quella ’storia rivoltante’, non sa se inorridire o se impietosirsi e solidarizzare fraternamente… Abbiamo pensato leggendo ad un grande Scrittore della Colpa, nell’Italia d’oggi poco frequentato (a quanto sappiamo), Fedor Dostoevskij: e scusate se è poco…”

Non c’è una segnaletica luminosa fissa, che ci guidi nella lettura di Novecento italiano. Davico Bonino ci lascia liberi di correre in questo paesaggio letterario italiano. Una condizione di spirito, tra le tante possibili, è la curiositas svagata con la quale sfogliamo il dizionario e i severi lemmi dell‘enciclopedia lasciataci dagli avi: saltando, assaggiando, passando rapidi dalla N alla S, perché là c’e un desiderio immediato che chiedi udienza o una lacuna di conoscenza che è rimasta dal liceo. Oppure, all’opposto, c’è l’inerpicarsi ‘col rampino’, trascrivendo interi brani per una nostra antologia segreta; o appuntando ai bordi qualche glossa, sugli spazi bianchi agli estremi della pagina, come ectoplasma di un’idea che desideriamo rimanga viva e danzante, non si sa mai. Infine, c’è la filosofia del camminarci dentro a naso in sù, solitari e pensosi come flaneur tra le vie secondarie di una metropoli, aperti a qualsiasi suggestioni e fantasticheria.   

Guido Davico Bonino. "Novecento italiano. I libri per comporre una biblioteca di base"2008, euro 14,50, pp. 388. Einaudi.

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