20 novembre 2012

"Conversazione con Adonay Navarro" di Davide Pugnana




Recensione-intervista
Conversazione con Adonay Navarro
“Dipingere è avere fantasia e operazione di mano,
di trovare cose non vedute (cacciandosi sotto ombra
di naturali) e forma con la mano, dando a dimostrar
quello, che non è, sia.”
(Cennino Cennini, Trattato della pittura)

Se ci proviamo in una salgariana spedizione da internauti e selezioniamo “Honduras” tra le voci    enciclopediche di Saper.it scopriamo l’arcobaleno cartografico di un mondo meraviglioso. Ma rispetto al flusso immaginifico della penna dei romanzieri, oggi è la piattaforma virtuale a ridisegnare spazi e tempi, usi e costumi, confini e cultura di un’intera etnia, disponendola nei lemmi di una mappatura ad icone; la quale, oltre a metterci nella più agevole disposizione di spirito per la navigazione fantastica, ci offre una nitida istantanea dell’Honduras: questo stato dell’America Centrale, affacciato sul Mar delle Antille e punteggiato da pelaghi di 5000 metri che scoraggiarono lo stesso Colombo. E su questa scia leggendaria, veniamo a conoscenza dell’etimologia del nome, forgiato sull’ispanismo hondura che significa “profondità”. Un serpeggiante clima tropicale avvolge Tegucigalpa, la capitale amorosamente ribattezzata dagli abitanti col nomignolo Tegus; lo spagnolo domina come lingua, ma declinato e arricchito localmente da inventivescreziature lessicali, come vogliono le leggi universali delle variazioni della lingua nel tempo, nello spazio e nella società; la fede religiosa si biforca tra cattolicesimo e protestantesimo; l’unità monetaria porta il fascinoso nome di lempira. “Assai ricco è il manto vegetale”, punteggiato di cedri, mogani, sapodille, ceibe e intervallato da boschi di querce e conifere, e mangrovie sparse sugli orli delle coste. Nelle linee di questo arabesco si muovono tapiri, giaguari, coccodrilli, caimani, iguane, tartarughe, avvoltoi e altre specie rare.
 Questo “vasto altopiano” ha i suoi confini geografici, a Nord, verso il Mar delle Antille e, a Sud, tra Nicaragua e oceano Pacifico, contornato infine a Ovest da El Salvador e Guatemala. Non manca la pagina dolorosa connaturata alla storia del “secolo breve”, perché anche l’Honduras ha conosciuto il ventre molle de “i problemi lasciati in eredità dai regimi dittatoriali, violazione dei diritti umani, criminalità, povertà, analfabetismo”. A riequilibrare la bilancia verso le conquiste di civiltà e progresso troviamo il lemma “Cultura” articolato in quattro aree. Complessivamente, la spina dorsale della cultura honduregna è di matrice spagnola, ma su de essa si è depositata, per accrescersi, l’influenza europea, il cui alfabeto, tra barocco e moresco, ha lasciato tracce incise nelle “espressioni architettoniche, artistiche, religiose di forte peculiarità”. A questo corredo occidentale risponde con solennità atavica “il sito maya di Copàn, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO nel 1980, posto quasi al confine con il Guatemala e le cui rovine archeologiche (la ‘scalinata dei geroglifici’, i templi dell’acropoli, le sculture)”, prima che monumenti, incarnano documenti della civiltà che lì visse a partire dal II secolo. Ma il vero e proprio tessuto connettivo dell’arte honduregna contemporanea sono gli artisti, alcuni dei quali hanno raggiunto un respiro internazionale, mentre un vivaio di giovani - come mi raccontava, nel corso dell’intervista, Adonay Navarro - si formano orientandosi in vari indirizzi, dal figurativo all’astratto, con un deciso sperimentalismo dei materiali e dei supporti. L’ultima sezione “Cultura: arte” riserva la chiusa enciclopedica ad un aureo
quadrilatero della pittura e della scultura honduregna: Pinto Rodezno (1965); Dario A. Rivera Trejo (1958), MAFFELA (Maria Ofelia Garcia Casanova) e Yovany Adonay Navarro (1974).

Ho conosciuto Adonay Navarro circa un mese fa. Il primo contatto percettivo con alcune sue opere mi ha richiamato prepotentemente alla memoria il concetto espresso da Cennino Cennini nel suo Trattato della pittura, posto ad epigrafe dell’intervista. Non so per quali meandri, quella meditazione sulla centralità dell’intelletto pittorico che sorregge la mano dell’artista e lo spinge a “trovare cose non vedute” si è affacciata in me senza reale giuntura con quel linguaggio formale che mi stava davanti, figlio di un altro secolo e di un altro vocabolario pittorico. E in verità, nemmeno ad intervista ultimata riuscii a dare un senso all’accostamento, che continuava a sembrarmi imbastito sulle fondamenta di un castello di sabbia. Non vi scorgevo un orizzonte di senso che andasse al di là della pretestuosa suggestione intellettualistica. La risposta arrivò impreveduta. L’avrei trovata, qualche tempo dopo, leggendo alcune pagine di Raffaello Borghini, autore di un meraviglioso trattato (Il riposo,1584), sulle cui tracce mi aveva messo un saggio di Vittorio Sgarbi (La stanza dipinta, riedito 2012). In un capitolo, il critico trasceglieva un’espressione di Borghini per definire il midollo concettuale dell’opera di Valerio Adami, pittore del Novecento. Secondo Borghini, l’arte è “un abito intellettivo” che fa “con certa e vera ragione di quelle cose che non sono necessarie, il principio delle quali non è nelle cose che si fanno, ma in colui che le fa.” Se quindi la radice prima dell’abito intellettivo è nell’interiorità dell’autore che astrae, che sviscera interpreta trascende il dato di realtà in una visione stilistica nuova, perché questa condizione mi appariva così calzante uardando le opere di Adonay Navarro? Nonostante l’irrequieto e policentrico sperimentalismo del suo percorso di scavo espressivo, una tonalità di fondo lavorava ad unire le opere della ‘prima maniera’ con i più recenti approdi: il disegno. Quel disegno che Adonay Navarro immerge nelle profondità del pensiero e nell’esplorazione degli oggetti con l’ostinata, straziante vitalità degli esercizi quotidiani. Nei suoi dipinti e nella modellazione delle  sue sculture, la linea grafica non traccia la figura; non funge cioè da elemento strutturante; ma ne scopre l’intima essenza.
Adonay Navarro concepisce il disegno come una vera e propria forma conoscitiva, la quale, nell’arco del processo creativo, finisce per dettare il primo tempo dell’interpretazione. Come “abito intellettivo” il disegno perde la sua connotazione preparatoria per assumere un nobile statuto di autonomia intellettuale. Forte di questa sua centralità, esso diventa elemento unificatore dello stile. In questo sistema estetico, disegnare non significa più muoversi sul terreno delle intenzioni estetiche, del collaudo, dell’approssimazione all’idea; poiché è già tutto questo insieme. Il nodo pensiero/disegno porta l’arte di Adonay Navarro lontana da ogni semplificazione popolare, prossima al candore naif; e si apre invece ad una strofa pittorica e plastica dove volti, oggetti, luoghi, persone, brani di memoria e proiezione dei desideri, si fanno simbolo (o archetipo) trovato in forza di astrazione.
Il nucleo pulsante dell’intervista all’artista dovrebbe essere, malgrado la modernità giornalistica del “genere”, quello di sortire un effetto maieutico: lasciare un ritratto in piedi dell’autore, tale da mettere a nudo le linee di intersezione tra mondo concettuale e mondo della forma artistica, fornendo così al lettore più sprovveduto un’idea intensa e convincente del suo percorso. Un’intervista-bussola, per dir così, tanto più necessaria in mezzo all’affollata piazza dell’arte contemporanea, col suo arcobaleno di chiavi espressive.
Un’intervista che sia “un abito intellettivo”, capace di tradurre al meglio l’uniforme della critica d’arte, in tempi in cui risulta sempre più difficile andare tra i talenti a lume di naso; come è sempre più difficile assottigliare i coni d’ombra disegnando esaurienti planimetrie delle correnti e delle personalità del panorama artistico contemporaneo.

Adonay Navarro tu sei molto giovane; ma hai già alle spalle una carriera straordinaria: esposizioni,mostre, simposi, biennali, riconoscimenti e il recente Premio Unico de Subasta 2012. Il tuo iter espositivo ha un respiro cosmopolita che va dall’America all’Europa, fino a cornici prestigiose, anche per l’esperienza diretta su una materia come il marmo, conosciuto lavorando nei simposi di Carrara. Da dove parte questo percorso? Qual è stato il tuo esordio?
Ho sempre avuto un’attitudine alle forme plastiche, fin da piccolo. Questo mi ha portato ad iscrivermi, negli anni Novanta, alla scuola di Belle Arti in Honduras, l’Escuela Nacional de Bellas Artes, una formazione dalla quale uscii laureato nel 1993.

Mi piacerebbe conoscere più da vicino la tua formazione artistica. Ad esempio, chi sono stati i tuoi maestri?
La mia formazione è relativa all’Honduras; lì sono le mie radici e lì c’era la possibilità di vedere il museo e di venire a contatto con opere notevoli. Se dovessi individuare un professore che mi ha ispirato, il primo nome sarebbe quello di Obed Valladores. Si era formato a Carrara e aveva istruito a sua volta la prima generazione di artisti honduregni, tra i quali Dario Rivera. Il laboratorio del mio maestro Valladores si chiamava “Buonarroti” in onore di Michelangelo.

Il Rinascimento italiano è presente nell’immaginario artistico honduregno?
Certo! Noi dell’Honduras guardiamo agli artisti del Rinascimento; gli artisti della mia generazione, ma anche i giovani allievi, studiano Michelangelo. Personalmente, però, mi sento più vicino a Bernini e a Canova.

 Sai che le mani di Apollo e Dafne sono opera di Giuliano Finelli, uno dei quattro carraresi al seguito delle nutrite maestranze del Bernini? Era dotato di uno straordinario talento e di una grande sapienza tecnica. Un virtuoso. Pare che Bernini non abbia più toccato quelle mani.
Per me Apollo e Dafne è il massimo risultato del Bernini, forse la sua opera più grande. Sì, le mani sono straordinarie. Di Antonio Canova amo Le tre grazie e in particolare Paolina Borghese.

E nel classicismo del nostro tempo?
Nel nostro tempo? Non è facile decidere. Diciamo che tra i ’classicisti’, tra gli artisti che creano un dialogo con la tradizione, mi colpisce soprattutto Mitoraj.

Mi piacerebbe sapere se, a partire dai tuoi esordi, pittura e scultura sono stati compresenti. Spesso nelle tue opere i due linguaggi - colore e modellazione plastica - si intrecciano per dar corpo ad un coerente dettato formale. È stato così fin dall’inizio?

Io sono nato come scultore e ho sempre lavorato la scultura; ma la formazione generale dell’Accademia ti porta a sperimentare anche la pittura. Diciamo che, per quanto riguarda la mia ricerca, dal 1995 la scultura tridimensionale si arricchisce della pittura. Ogni opera deve sortire creta o marmo o terracotta, a seconda del tema trattato; oppure servirsi degli apporti della pittura, sempre a seconda del soggetto.

Come se fosse il soggetto a decidere la materia.
Ti faccio un esempio. Per la mia opera, per i soggetti che scelgo, il bronzo non va bene. Non lo uso mai, perché non traduce ciò che voglio esprimere. Uso invece la pietra, la creta, il legno, a volte il cotone. Il simposio del 2001, a Carrara, mi ha dato la possibilità di conoscere e lavorare il marmo, che prima non conoscevo, se non per sentito dire.

Abbiamo toccato i punti di snodo della tua formazione; della tua biografia intellettuale, fatta di maestri e modelli ai quali hai guardato. Ma c’è ancora un lievito segreto che vorrei approfondire ed è il tuo rapporto con l’Honduras. Ad un artista si chiede sempre di che materia è fatto, del suo rapporto con il luogod’origine. Che cosa passa dell’Honduras nella tua opera?
All’Honduras è legata la mia famiglia e il senso di appartenenza profondo e totalizzante che fa di un luogo il ’tuo paese’. E l’Honduras è anche la terra che ha visto la mia prima ispirazione. Lì sono le radici della mia cultura artistica, piena dei suoi colori accesi. Ho lavorato questa materia umana e culturale per quindici anni e dopo questa lunga ricerca ho vissuto una situazione di riflessione sulla mia opera, ho rimeditato sullo stile.

E che cosa è successo durante questo passaggio?
Ho sentito di dover tornare al disegno, di farne qualcosa di più. Di renderlo uno strumento conoscitivo. Mio padre fece le scuole con il pennino e l’inchiostro e io ho deciso di tornare al pennino. La china che vedi nelle mie opere la faccio io, con le foglie di sakatinta, che mio padre mi ha insegnato a trattare.

Adonay, per molti artisti, il disegno rappresenta una fase iniziale; è l’intelaiatura dell’opera, il suo cartone preparatorio; o, più in generale, il disegno è il luogo dove liberamente si approccia all’idea, si prende confidenza con il soggetto attraverso una messa a fuoco aurorale che poi passerà nella messa in opera delsoggetto. Questa fase di studio viene cancellata nella corsa alla perfezione stilistica del finito. La stessastoria del disegno nell’arte occidentale mostra la presenza di fogli, diari, quaderni, taccuini che sembrano ricoprire una posizione ancillare rispetto all’opera in pittura. Perché hai deciso per il primato del disegno?
Sono tornato, e torno sempre, al disegno come ad una necessità personale; per rinnovare lo stile; perché il linguaggio che usavo non si adatta più alla realtà, al mio universo familiare. Ad un certo punto, sento che la ricerca subisce un arresto, finisce per incagliarsi in alcune secche. A me è successo nel periodo in cui lavoravo a Chicago. Mi sono dedicato al tratto, alla pulizia della linea. In molte interviste ho parlato del blocco dell’ispirazione. Un critico mi ha persino detto di non dirlo.

Una linea sintetica che Longhi avrebbe chiamato ’floreale’ per la sua serpentinata musicalità e che, nel recente ciclo per il Vaticano, mi pare sfiori quasi la frase calligrafica, soprattutto nel tratteggio dei volti enelle linee delle architetture a china su fondo giallo.
Il ciclo per la mostra in Vaticano si chiama Re-estructura: sono disegni realizzati a china e pennino. Dopo il blocco creativo sono nati degli esperimenti incentrati sul disegno. Dietro le figure ci sono i pletogrifici che io vidi nelle grotte dei miei luoghi e che ho iniziato a ricreare in alcune tele. Lì ho appreso, per la prima volta, un segno sintetico.

Questo alfabeto disegnativo è per te come una ‘lingua’ con la quale leggi il mondo. Mi viene in mente ciòche Nabokov chiamava “la biografia dello stile”, perché davvero seguire le evoluzioni del tuo disegno significa rivivere dall’interno la fasi del tuo processo creativo. Ti propongo questa riflessione propriosfogliando il catalogo delle tue opere e guardando le immagini presenti nel tuo blog[Adonaynavarro.wordpress.com]. Colpisce la varietà degli stili e dei linguaggi, come se il tuo ‘segno’ nonsi stabilizzasse mai su di un baricentro; ma trovasse il suo punto di forza nell’attraversamento irrequieto degli stili; stili in movimento, spesso così diversi da creare l’impressione di opere uscite dalle mani di artisti diversi.
Sì, il disegno rappresenta per me una vera e propria lingua, della quale ogni volta devo tornare ad impararne le strutture, la grammatica, aggiungere o togliere o correggere le frasi. La metafora calza bene. Sia in scultura che in pittura ho sempre impiegato più stili; e ogni registro formale era legato ad una situazione di vita oltre che ad un’esigenza espressiva.

Il dialogo con la materia è diverso per il pittore e lo scultore. Per il primo, il corpo a corpo con la materiasi fa più docile (c’è la linea, il colore, il disegno), a meno che non si dia il caso di ‘action painting‘ o altriapprocci spiccatamente gestuali; mentre per il secondo, la sfida con la modellazione gestuale, tattile, e con iproblemi messi in gioco dalla creazione tridimensionale, è una condizione permanente dalla quale dipendeil risultato finale dell’opera. Come vivi il passaggio da un linguaggio all’altro? Da un supporto materiale ad un altro?
Questo passaggio è stato presente, nella mia creazione, fino dagli anni della formazione, poi negli esordi e dura tutt’ora. È una condizione che vivo da sempre; ma che non ha mai costituito uno strappo. C’è semmai continuità. Il passaggio, in realtà, è un dialogo di linguaggi e di materiali propri della pittura e della scultura.
Nell’arte delle origini erano fusi, solo più tardi si è teso a separale; per cui spesso chi è pittore è pittore e chi è scultore è scultore. La mia sperimentazione, invece, è sempre aperta a livello di materiali, alla loro possibile commistione. Molti supporti possono stare assieme. In Hicos de mais, un’opera del 2004, ad esempio ho utilizzato legno, cotone, resina, carbonato di calcio. Ma, come ti ho detto, ogni opera, ogni soggetto, può essere realizzato solo in quel materiale, o in quella specifica combinazione di materiali, e non altri.

Noi abbiamo dietro alle spalle un secolo che è stato definito “breve”; ma questa brevità è tutta percorsa daun vertiginoso sperimentalismo in ogni campo artistico, tanto che spesso si sente ripetere che “è statoespresso tutto”. Il Novecento è stato il secolo delle avanguardie storiche; degli antitetici percorsi diPicasso e Dalì; delle correnti informali; dell’arte concettuale; dei riusi materici dell’Arte Povera; del corpo dell’artista sottoposto è performance di ogni tipo. Quanto ha influito la sperimentazione novecentesca sulla  tua opera?
Sulla mia opera ha influito molto la lezione di Marcel Duchamp, il suo riuso ironico e provocatorio degli oggetti della modernità nella chiave del ready-made. Duchamp ha influenzato molto le correnti artistiche honduregne. Ma non amo il facilismo del Novecento. Molti giovano artisti, in Honduras, saltano l’apprendimento artistico per dedicarsi all’astratto. C’è molto del ready-made, ma anche un omaggio al classicismo, in un’opera come Interno/Esterno.
Interno/Esterno è forse l’opera più rappresentativa in questa direzione, quella che mi ha permesso di miscelare la passione per la classicità con l’avanguardia. L’ho realizzata nel 2005 e si trova in una collezione privata in Honduras. Nella parte inferiore, ho mantenuto un registro linguistico classico che riecheggia i modelli delle Veneri, con il panneggio ad effetto bagnato, velificato sulla pelle e con il gioco di pieghe sinuose; dai fianchi in su, tutto si capovolge, si passa ad un altro linguaggio che è quello della musica e dell‘oggetto moderno. Ho scelto così di modellare il busto a forma di chitarra. Ma non è una chitarra della fantasia; è una chitarra reale, che lo spettatore può suonare, può pizzicare. C’e in questa scelta la volontà di rompere la distanza sacrale che divide il pubblico dall’opera; e l’uso della chitarra reale mi dava la possibilità di interagire con lo spettatore, di creare un’unione con chi guarda.

Adonay, tra le tue ultime opere ci sono i Gerberizados, che, come scrive il critico Ramòn Caballero, “contengono campioni di terra, pietra, residui vegetali estratti dalla zona mineraria dove ancora si lavora con il metodo a cielo aperto”; frammenti honduregni racchiusi in piccoli vasetti di vetro viaggiano nel mondo, diventando “metafora preziosa di una nazione”. Caballero la definisce “un’arte reale-surreale”.Una nuova direzione di scavo e di ricerca?
Sì è una nuova ricerca che si affianca a quella del ciclo dei Re-estructura, che invece si mantiene dentro l’esercizio del disegno. Oltre alla scelta dei frammenti, nel vasetto c’è anche la presenza di un codice a barre, ossia di un elemento tecnologico reale. C’è dentro l’informazione dell’Honduras. Sono una serie di cinquanta pezzi. Ma nei Gerberizados c’è anche un intento di tipo civile, la denuncia di un tema forte come quella della miniera e dell’esportazione, presente anche in un’altra serie recente, i Fossilis modernus, fossili custoditi in astucci di legno che fungono da cornice, e attorno ai quali ho disegnato, sempre a china, motivi floreali, piante, alberi.

Adonay ho un’ultima domanda. Pensi che l’arte possa ancora generare del “nuovo”? Che possa ancora raccontare il nostro tempo con icone potenti? Pensi che un artista, insomma, possa ancora essere testimonedel suo tempo storico, mettendosi davanti a uomini e donne, civiltà potere e miti, come la storia dell‘arte ci ha insegnato?
L’arte sempre ha rappresentato la Storia. Ciò che conosciamo del passato è veicolato spesso dall’arte, che è una forma di pensiero. In questo senso, ho trovato molto significativa l’ultima mostra che ho visto a Firenze, Arte torna Arte. Mi sono piaciuti gli artisti moderni che si misurano con il classico. Ad esempio Lorenzo Bartolini e Picasso: mi ha impressionato il loro modo di stare assieme. Anche gli artisti del nostro tempo dovrebbero lavorare, ricercare, sperimentare secondo il loro vocabolario, ma cercando di mantenere una linea di continuità con la tradizione. È un messaggio che invio anche ai movimenti artistici dell’Honduras, invitando i giovani a guardare all’arte del Novecento e, allo stesso tempo, a crescere stando dentro un continuo rapporto di scambio con i maestri della tradizione classica.

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