07 novembre 2012

"Il caldo delle pietre" di Giorgio Montagnoli



                         Giorgio Montagnoli (primo a sin.),  foto Gianni Quilici


di Luciano Luciani
 
La poesia, ha scritto qualcuno che se ne intendeva, è una pianta selvatica che cresce dappertutto senza essere stata seminata e il poeta è un paziente – e curioso – botanico, che, per raccoglierla, si inerpica lungo impervi sentieri di montagna. Una metafora, questa, che non dovrebbe dispiacere a Giorgio Montagnoli, scienziato e didatta per mestiere, impegnato uomo di pace per intima sensibilità, poeta per vocazione e caro amico, che la sua piantina poetica è andato a cercarsela in Garfagnana, sull’Alpe di Trassilico, a San Pellegrinetto: un bacino i cui confini sono costituiti da monti possenti, pareti accidentate, rapidi, impetuosi e trasparenti corsi d’acqua. Rari gli abitanti, aggrumati in piccoli nuclei di case sparse posizionate là dove un tempo sorgevano gli ovili dei pastori dell’Alpe, e quasi tutti anziani quotidianamente impegnati a fare i conti con condizioni di vita aspre e appena appena sfiorate dai modesti agi di una modernità peraltro arrestatasi alla metà del secolo scorso. Con loro, sia pure nella posizione privilegiata del cittadino che ha scelto di trascorrere con la famiglia, in quei luoghi remoti, il proprio tempo libero e di riposo dai doveri dello studio, della ricerca e insegnamento, l’Autore, per quasi quarant’anni, ha condiviso l’impegno a mantenere in vita questa minuscola società montanara: altrimenti condannata dalle leggi bronzee dell’Economia, del Mercato e del Consumismo a un destino di totale spopolamento, all’abbandono delle rustiche abitazioni, al degrado delle magre ma dignitose proprietà, all’estinzione come comunità.

Si tratta di donne (soprattutto donne!), uomini, animali domestici, creature dell’Alpe appenninica abbarbicate a stili di vita semplici e antichi. Protagonisti, in gran parte inconsapevoli e a loro modo eroici di una resistenza ostinata e tenace ai disastri della dilagante cultura di massa, almeno nella sue forme più vistose e volgari. E proprio questi umili, ultimi, testardi abitatori della montagna compresa tra il mar Tirreno e la pianura emiliana agli occhi del Poeta assurgono al ruolo di silenziosi testimoni e preziosi interlocutori di un lungo, intenso e poetico, monologo interiore. Giorgio Montagnoli lo conduce interpellandoli uno a uno, selezionando di ognuno la storia personale le caratteristiche fisiche e quelle morali ai fini di una personalissima riflessione in versi sugli eterni temi della condizione umana: il senso, direzione e significato del vivere; l’accettazione, mite, paziente del proprio destino, ancorché segnato dalla sofferenza, come unica risposta possibile ai drammi dell’esistenza; la vita che prosegue dopo la morte negli altri nelle cose, nella natura, nel perenne, sempre uguale e sempre diverso, rinnovarsi dei giorni e delle stagioni; la gioia di una fedeltà imperterrita al proprio ambiente povero e disadorno, alla famiglia, agli amici.

Stellina, Marigiana, Battì, Effige, Adriana, Gianni, Amelia… e poi Beppe, Tina, Paranà e altri ancora e ancora… Partecipando loro dubbi e scoperte, consapevolezze e stupori, il poeta li interroga e si interroga lungo il filo teso e sottile di versi sommessi e urgenti, strutturati secondo una complessa e sapiente disposizione ritmica e contenutistica. Ne emergono, strofa dopo strofa, i lineamenti essenziali di una modesta epica paesana e le tracce significative di un’attenta, acuta antropologia del popolo della montagna: un’umanità semplice, elementare a tutt’oggi impegnata nella quotidiana prova con dure, difficili, ormai inattuali condizioni materiali di vita. Le stesse che abbiamo rifiutato, collettivamente, circa mezzo secolo fa in nome del benessere, di maggiori consumi e opportunità. Certo, sarebbe sciocco negarlo, qualcosa e forse più di qualcosa abbiamo acquistato. Molto altro, però, rischia di perdersi e per sempre tanto sul terreno della morale (lo spirito di solidarietà, il sentimento della continuità familiare, lo spirito comunitario), quanto in campi più contigui all’operatività umana (la tenacia, lo spirito di sacrificio, il senso dell’ autonomia nell’organizzare il proprio lavoro). Insomma, abbiamo pensato di poter sostituire l’anima col prodotto interno lordo e col reddito pro capite e ci siamo comportati come i rampolli viziati di certe casate aristocratiche dell’ Ottocento che dilapidavano i beni di famiglia ai tavoli da gioco di tutti i Casinò d’Europa: così abbiamo sperperato un patrimonio morale fatto di tradizioni, credenze, valori, culture.

E oggi, quando mille rughe sembrano ormai bruttare la facciata ottimistica del nuovo a tutti i costi, oggi che non siamo più così sicuri di noi stessi e della nostra “modernità” e di frequente, anzi, appariamo disorientati e smarriti, allora torniamo a ricercare le abitudini, i volti, i sapori, i suoni di una volta, quasi bisognosi di un momento di pausa per poter riflettere e riposare…

Scrive l’Autore nel denso saggio finale posto a corredo e integrazione della silloge: “Sono convinto che ci sia sempre tempo per cambiare strada; basta ricominciare dal bello e dal gratuito, e anche dall’inutile, che però riveli proprietà carezzevoli per il nostro cuore, anche se faticate, e in maniera inconsapevole…
Ricominciare dalla poesia?”


Giorgio Montagnoli, Il caldo delle pietre , collana La memoria poetica, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2012, pp. 96, Euro 13,00


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