11 dicembre 2019

" Verso l'infinito e oltre" di Nicola Barbato


Come per molti altri il mio "leopardismo" ebbe inizio sui banchi di un Liceo Classico: il Carducci di Viareggio, mezzo secolo fa. Cominciò con uno schierarsi d'istinto che il tempo avrebbe, kubrikianamente, portato "verso l'infinito e oltre”.
 

Tra mille altri passatempi assai meno colti, anche nelle nostre terze era in voga la disputa tra foscoliani e leopardiani ". Nel conflitto incruento tra liceali (guerra non di bottoni ma di poeti) non si poteva non prendere partito. Pena l'essere tacciati di ignavia.
 

I foscoliani rivendicavano la politicità radicale di Ugo e davano di Giacomo una lettura troppo intimista. Che gli idilli fossero quasi assimilati ai motti dei baci di cioccolata per innamorati peynettiani mi urtava. Non avevo letto, all'epoca, né Luporini né Timpanaro e l'illuminismo e il materialismo di Leopardi mi erano scolasticamente noti ma non conosciuti. A maggior ragione, poi, ne ignoravo la statura politica e perfino sociologica.
Quella contrapposizione, d'istinto, mi pareva artificiosa. E forse, a ripensarci, conteneva anche, tra le righe, un vago ammiccamento sessista (la politica come affare dei maschi, e Foscolo assurto a eroe "virile"). Mancava ancora un anno al fatidico 1968.
 

Io avevo iniziato (da poco) a occuparmi di politica ma proprio non sentivo rùggermi dentro nessuno "spirto guerrier" (per inciso e a scanso di equivoci: Alla sera è tra i sonetti che amo di più). La politica era un impegno pratico e una direzione di studio teorico. Non mi sembrava serio immaginarmi nei panni di un eroe risorgimentale solo perché mi affacciavo al presente in cui vivevo e ai suoi problemi. E dunque respingevo quella equazione tra politica e poesia foscoliana. Ma c'era di più. Diciamo che l'inquietudine esistenziale di Leopardi la sentivo mia, perché andava a scavare in una terra di interrogativi filosofici in cui già abitavo e a cui la politica non dava allora (oggi so che non può darle) risposte ristoratrici. Proprio perché l'essere "sconfitto da domande ancora aperte" mi ha accompagnato poi nei decenni, Leopardi era già per me il coraggio della coscienza (senza tuttavia che da quel coraggio nascesse - come per il Pericle riferito da Tucidide - la felicità).
 

Leopardi rappresentava la rinuncia a ogni consolazione preconfezionata ma, insieme, un antidoto alla passività. Era, il mio, un sentire ancora pre-Ginestra (anche questa l'avrei compresa tardi), un sentirsi fieri della propria singola, laica e deserta inconsolabilità. "L'infinito", nello splendore del suo plenilunio poetico, mi rapì, sul carro di una voce - quella di Arnoldo Foà - solo anni dopo. Ero ormai oltre i trenta e in piena crisi affettiva. La voce liberò il testo, sciolse il dolore rappreso, riuscì finalmente a consolarmi con la dolcezza delle lacrime, con la pacatezza densa di pause di quel timbro vocale inconfondibile. Piansi la scomparsa del poeta, e mi parve di piangere un fratello che avrei voluto vedere e toccare anche per un momento soltanto. Così l'infinito entrò per sempre dentro di me e nella mia memoria. Per molto tempo non ho potuto recitarlo fino in fondo, perché la voce mi si rompeva e dovevo zittirmi. Altre voci e altre musiche mi provocano effetti simili. Ma quella poesia è stata il mio "nuovo inizio".
 

In terza liceo amavo, sì, quella meraviglia di versi, ma preferivo "A Silvia". La innocente soccombente e ignara cantata dal poeta che pensa coraggiosamente, che sa fare oggetto di pensiero in versi il coraggio stesso. Forse mi spaventava l'idea di naufragare, sia pure dolcemente, in quel mare, troppo vasto, troppo infinito se così si potesse dire. Forse, a mio modo, resistevo all'idea del definitivo e irreversibile naufragio, a dispetto della esibita e titanica "inconsolabilità". C'è voluto del tempo per capire che il titanismo, in tutti i suoi travestimenti, è una semi obbligata epifania dei diciotto anni.
 

Oggi, duecento anni dopo, grazie alle nuove analisi ad altissima definizione, sappiamo ormai tutto di quel quaderno manoscritto e dell'incessante lavorìo di penna che ne ha preceduto la stesura definitiva. Ma questa è filologia. Radiografia. Anatomia, tavolo operatorio, dissezione. Lo splendore del plenilunio è un altro mondo. Un mondo infinito.

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