di Angela Giovanna Palermo
“Facciamo che io ero…”
Quanti di noi hanno usato questo imperfetto poetico nella loro infanzia.
Il viaggio vorticoso di Paolo Pecere parte proprio da qui, dall’infanzia, la terra della memoria, per proseguire verso due mondi: uno esteriore, reperibile sulle mappe, e uno interiore, difficilmente codificabile. Questi due mondi a volte risultano paralleli, altre volte fusi. L’autore si immerge in entrambi, con un coraggio e una profondità che solo pochi intellettuali osano; lo fa attraverso un linguaggio polisemico, utilizzando un registro linguistico che sapientemente passa dal racconto intimistico alla trattazione accademica, senza mai perdere di uniformità e di continuità.
Il sottotitolo: “Viaggi, trance, trasformazioni” si può leggere come una specie di triade dialettica hegeliana, dove i viaggi sono la tesi, la trance l’antitesi necessaria per giungere alla sintesi: la trasformazione.
In questo saggio narrativo filosoficamente densissimo e molto erudito, scientificamente impeccabile, è proprio la trasformazione il fil rouge che lega i vari elementi analizzati con immedesimazione estatica e distacco analitico.
Il viaggiare, ci dice l’autore, “pone le condizioni di una trasformazione dell’io”. Questo tipo di trasformazione ha qualcosa in comune con quella sperimentata nell’esperienza di diventare “altro” nella trance, fenomeno investigato partendo dal Salento, seguendo le tracce di De Martino, per poi proseguire in Kerala, Pakistan, Brasile, Mali, India, America, luoghi visitati direttamente dall’autore, viaggiatore solitario, sempre in grado di trasmettere il suo personale e totale coinvolgimento per le vicende narrate, senza mai cadere nel narcisismo autobiografico ma, anzi, preservando il lettore da certo astrattismo teorico che caratterizza molti testi di antropologia filosofica.
Paolo Pecere viaggia seguendo le tracce di un dio che danza e lo fa in una prospettiva transculturale.
Se si considerano globalmente le prospettive multiculturali delle civiltà analizzate nel saggio, si può giungere alla conclusione, necessariamente parziale, che i concetti occidentali di Io e di Persona, espressione di universi filosoficamente e giuridicamente delimitati, sono un’eccezione.
Il concetto di identità è un’entità complessa, molteplice. L’autore cita nel libro un verso di Walt Whitman: “Sono vasto, contengo moltitudini”, per spiegare non la reale molteplicità del Sé, ma per marcare la mancanza di orizzonti dell’esperienza del Sé che non si può circoscrivere entro confini netti, se non al prezzo di soffocarlo. L’esperienza di se stessi è dunque un processo mai concluso che ha bisogno di comprendere gli altri per comprendere se stesso. In questo senso si può interpretare l’affermazione: “Il sé è un danzatore”. Con l’immagine del sé danzante la metafisica scivaita indica una concezione mistica della natura che ha concepito un’identità tra io e natura, molto simile al panteismo della filosofia romantica europea. Il sé danzante è dunque, nietzchianamente, il dionisiaco, un impulso a varcare i confini ristretti dell’idea occidentale di identità, i limiti della quotidianità, la polarità tra apollineo e dionisiaco; per immergersi, almeno temporaneamente, nell’estasi della danza, per ritrovare il senso di un’unità primigenia.
Il furore dionisiaco è solo in apparenza contrario e distante dal razionalismo occidentale che, dalla res cogitans di Cartesio all’Io penso kantiano, ha individuato nella Persona il centro nevralgico della nostra identità che il filosofo definisce, felicemente, come un “composto di differenze”( basti pensare al daimon socratico e alla tripartizione dell’anima operata da Platone nel Fedro).
Nella civiltà occidentale, tuttavia, sono state solo le istanze della psicoanalisi ad accogliere l’idea di una molteplicità del soggetto che, al di fuori, del contesto psicologico non è legittimata.
Nel libro l’autore si pone criticamente di fronte al problema di valutare la trance di possessione come tecnica psicoterapeutica. Lo fa analizzando la posizione di Lévi-Strauss che paragonò lo sciamanesimo alla psicoanalisi e quella di Jung che già nel 1918 aveva individuato nello sciamanesimo un precedente della psicoanalisi. La risposta di Pecere è negativa, in quanto le istanze della psicoanalisi tendono a reintegrare le pulsioni dell’Es all’interno dell’Io che, invece, nella trance di possessione si dissolve per scoprire e sperimentare nuove identità. È questo uno dei punti più complessi e interessanti del saggio, in quanto il filosofo allarga l’analisi a una dimensione anche “politica” e sociale del fenomeno della trance da possessione, mettendo bene in luce un’ambivalenza fondamentale. Egli, d’accordo con il punto di vista espresso da De Martino nel Mondo Magico il quale sottolinea i pericoli di un ritorno indiscriminato al magismo, pone il lettore di fronte al rischio di ciarlataneria insito nello sciamanesimo che da pratica liberatoria e disinibitoria, può rivelarsi un contenitore in cui riversare la fragilità della coscienza individuale e collettiva, “una fuga dalla realtà nel mito”, distruggendo la coscienza critica che rischia di trovare rifugio nel fanatismo e nella personalità carismatica. In quest’ottica l’autore analizza il fenomeno della sciamanizzazione della Germania da parte di Hitler, ma anche le attuali politiche scellerate di personaggi grotteschi come Bolsonaro e Trump, espressioni dell’“uomo forte”. Emblematica e sinistra, a riguardo, diventa allora la visione dello “sciamano di Qanon” che il 6 gennaio scorso ha guidato l’assalto di un gruppo di manifestanti pro-Trump – suoi fedelissimi – al Congresso americano.
Storicamente, il dionisiaco, l’ebbrezza, gli stati di incoscienza, sono stati necessari a farci sentire parte di un tutto più ampio, non etichettabile, in cui la nostra identità si perde per riscoprirsi trasformata. Come sottolinea Giorgio Colli nella sua introduzione a La nascita della tragedia di Nietzsche: “Per la liberazione la natura umana ha due strumenti, il mito greco ha due dei (…). Quegli dei non dispongono soltanto del sogno e dell’ebbrezza, come strumenti di liberazione. Prima d’ogni altra cosa, e in comune, possiedono l’uomo con la follia”.
La
fisica quantistica, oggi, sta giungendo alle stesse conclusioni appena
accennate, e lo sta facendo battendo vie assolutamente scientifiche. Non ci
stupiamo, dunque, di scoprire che di fronte al CERN di Ginevra campeggia una
statua gigantesca di Shiva che rappresenta la danza cosmica e anche il potere
divino, Maya, di cui parla diffusamente Schopenauer nella sua opera principale: Il
mondo come volontà e rappresentazione (1819): velo di natura metafisica e
illusoria, che separa tutti gli esseri individuali dalla conoscenza della realtà
profonda che si nasconde sotto questo eterno gioco ingannevole, per cui la
breve esperienza della vita umana, compresa tra un nulla ed un altro nulla, si
presenta come un vero e proprio sogno.
La fisica
quantistica ci dà la stessa identica visione del mondo apparente in cui siamo
immersi: la Realtà è un substrato universale costituito da “oggetti”
immateriali ed inconoscibili, che chiamiamo “particelle” subatomiche, coinvolti
in una eterna danza incessante di creazione e distruzione, base di tutto ciò
che esiste.
Quando Paolo Pecere descrive le danze, le possessioni da trance a cui assiste, la sua scrittura riesce a riprodurre l’ebbrezza di quei corpi che si eccitano al ritmo del dionisiaco, che si contorcono, che girano vorticosamente, che diventano altro, che entrano in un altro. Le parole diventano menadi, il ritmo si fa ditirambesco, la prosa diventa una vera e propria semantica incarnata. Il lettore invasato “danza, danza, danza”.
A questo punto, l’autore tocca un punto fondamentale dell’opera: l’empatia impossibile verso i danzatori posseduti e finanche verso nei stessi. Contro le convinzioni dominanti, Paolo Pecere mette in luce la fragilità dell’empatia che contiene in sé straniamento e, al contempo, intensificazione del sé. Empatizzare, immedesimarsi può essere liberatorio e disturbante; può comportare una paralizzante perdita del sé o sfociare nell’identificazione così come nell’abolizione della differenza dell’altro. La posta in gioco di una riflessione sull’empatia sembra essere per l’autore la messa in discussione della globalizzazione, dell’uniformità come destino. L’empatia, dunque, come scoperta dell’altro e laboratorio di esperienze.
Il rifiuto del filosofo della globalizzazione come destino riguarda un altro punto assolutamente essenziale dell’opera, di cui l’autore fa sentire tutta l’urgenza. Si tratta del problema ecologico che attraversa l’intero saggio come un leitmotiv teorico e poetico.
Le descrizioni della natura incontaminata, degli animali, dei nativi, producono nel lettore un sentimento molto simile al sublime kantiano. In queste descrizioni si avverte potentemente la tensione della narrazione di un Io viaggiante sospeso tra la ricerca dei posseduti e la ricerca di se stesso.
Paolo Pecere mescola sapientemente il sentimento estetico all’analisi scientifica, il pensiero ecologico alla critica delle politiche neoliberiste, richiamando le tesi del naturalista Alexander von Humboldt. Riporta al lettore le sue sensazioni stranianti della foresta come “esperienza sensoriale e corporea difficilmente descrivibile”.
La sua inquietudine ecologica si trasforma in una domanda esistenziale e politica che si radica nella mente del lettore come quelle radici descritte nel libro “filiformi o nodose che salgono da terra e scendono dal cielo”: è possibile un’altra vita?
La risposta a questa domanda mette in crisi la visione occidentale dominata dal capitalismo che vorrebbe investire anche luoghi e culture dominate da diecimila anni da un rapporto diverso tra uomo e natura, da una visione più ampia e complessa di morte e vita.
Alla fine di questo incredibile viaggio letterario e simbolico, nel lettore si insinua la voglia, simile a una smania dionisiaca, di viaggiare per sperimentare nuove vite e altre dimensioni del sé.
Ogni viaggio, tuttavia, deve partire da un unico porto: la conoscenza e il rispetto assoluto degli ecosistemi diversi dai nostri.
L’ecologia come forma insostituibile di libertà.
Paolo Pecere. Il Dio che danza. Viaggi, trance, trasformazioni. Nottetempo. Euro 18,00.
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