di Marigabri
"Misi sul tavolo le fiches, e lì ci fu una pausa negli strumenti del destino; devo ammettere che mi piacque, perché non sapevo cosa sarebbe successo dopo, e quella è la sensazione per cui vive ogni giocatore.”
L’azzardo come filosofia di vita, come scopo dell’esistenza, come modalità segreta dell’anima. La perdizione come obiettivo finale.
“Tutti sanno che non sei un vero giocatore finché non preferisci segretamente perdere.”
La vita come rischio perpetuo e come radicale abbandono alla dipendenza. Perché è lì che fiorisce il nucleo pulsante dell’emozione. Intensa e radicale. Unica ogni volta. Quando il tempo è sospeso prima della rivelazione fatale. Attimi come secoli. Rese dei conti come tuffi ciechi verso il tutto o il nulla.
“Rividi il mio passato in mille immagini simultanee. Forse tutta la vita è la preparazione a un momento come questo, quando vedi tutto in un colpo solo: le città, i paesaggi, gli amori estinti. Vedi momenti magnifici contrapposti a quelli ridicoli e ti rendi conto che non sono diversi. Vedi i tuoi reati minori esposti in fila ordinata, dove l’uno porta all’altro. Vedi strade polverose e parchi oziosi dove hai sprecato la metà dei tuoi preziosi momenti. Ormai che importanza avevano? Stavano per essere annientati, e io cancellato con loro.”
In prima persona racconta se stesso e l’inabissarsi nella vertigine del gioco “lord” Doyle, ancora una volta un espatriato inglese, piccolo truffatore, avventuriero in fuga in Oriente. In Cina, questa volta, a Macao, a sperimentare il perfetto annichilimento migrando da un casinò all’altro, luoghi vibranti di tensione, dove si aggirano come fantasmi i giocatori: ciascuno una storia diversa, ma tutti, indistintamente, malati d’azzardo e disposti a morire.
“Lungo corridoi d’acciaio lavorato scandito da colonne di vetro, i perdenti malconci si aggiravano con lo sguardo impaurito, come cercando l’uscita dalle loro miserie tutte mentali. Spiriti affamati di sicuro, spinti da intensità che non esaminavano né capivano. Il labirinto circolare del casinò li intrappolava come mosche verdi.”
E qui l’irrazionalità dell’individuo che ha misteriosamente deciso di perdere se stesso si sposa con l’humus fantasmatico delle credenze locali.
L’inferno personale del giocatore si connette allora con con quello della tradizione esoterica cinese, a ritmo serrato e in un nodo indecifrabile.
E così anche noi ci perdiamo, tra le porte scorrevoli e mutevoli di uno spaziotempo che ha smarrito i suoi contorni e annullato ogni linea di confine.
Lawrence Osborne. La ballata di un piccolo giocatore. Adelphi.
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