di Gianni Quilici
Leggo questo
romanzo nel letto e un po’ sulla
scrivania. In tutte e due le posizioni sono travolto come mi era accaduto
nell’altro grande romanzo di Philip Roth Il
teatro di Sabbath, così straordinariamente libero nel suo cinismo doloroso
e nel suo frenetico libertinaggio.
E sono travolto
non tanto dal suo intreccio narrativo, quanto dalla sorprendente bravura
stilistica e dalla sorprendente profondità che trasmette. Così la lettura l’ho
percepita certo criticamente, ma senza avere la forza di fermarmi, di
interrogarmi, di precisarla, di articolarla, di farla diventare verbo.
Così mi è successo
per La macchia umana, meno gioioso e
libero, però altrettanto disperato e ugualmente profondo de Il teatro di Sabbath.
Philip Roth non ti fa vedere i personaggi soltanto
nell’attimo o negli attimi in cui vivono, ma li esplora nella loro storia. Lo
scopo evidente mi pare che sia: cercare di capire perché siano così. Quale
ragione e quali misteri essi nascondono. Ho pensato, leggendolo, a Jean Paul
Sartre, all’ossessione di Sartre di capire Baudelaire o Genet, ma soprattutto
Flaubert. Capirlo attraverso la sua storia: l’infanzia, i rapporti con la
famiglia, con l’ambiente e infine con la Storia del tempo.
E’ ciò che Philip
Roth rappresenta soprattutto con il protagonista, Coleman Silk, ma non solo con
esso. Lo fa attraverso una storia che affonda nella sua infanzia e adolescenza,
seguendolo fino all’ultimo giorno.
Ecco Coleman, all’inizio
del romanzo, un insegnante 71enne energico e affascinante, colto, raffinato e molto
determinato, a cui è bastata una solo frase, una banale frase strumentalizzata
biecamente, perché si scateni contro di lui tutte le invidie e i risentimenti, tutti
gli odi latenti, perché crolli il suo mondo, la sua brillante vita accademica e
si smembri la sua famiglia.
Da questo stato di
cose inizia il romanzo, che l’io narrante, lo scrittore protagonista di tanti
romanzi di Roth, Nathan Zeckerman, ricostruisce, come in un puzzle, pezzo per pezzo.
Una storia complessa e rivoltosa, quella di Coleman, una fuga dalle sua radici,
portandosi dietro un segreto, che è riuscito abilmente a nascondere, fino alla
tomba.
La sua storia
introduce altri co-protagonisti del romanzo: Faunia Farley, una bionda esile
34enne, analfabeta, con alle spalle storie terribili di violenze e di morte,
priva di qualsiasi illusione e per questo libera, con cui il protagonista
coltiva una relazione erotica molto intensa; il marito di lei reduce dal
Vietnam, che questa guerra ha traumatizzato in modo indicibile; Delphine Roux,
giovane e piacente francese, nuova direttrice del dipartimento di letteratura
tanto ambiziosa quanto frustrata; e altri ancora più o meno significativi nell’economia
del romanzo.
L’America, anno
1998, sotto shock per i pompini che Monica Lewinsky elargì al presidente
Clinton, è lo scenario più adeguato dello spregevole conformismo con cui una
società ipocrita e indecente, nel nome della decenza, condanna, emargina e
“uccide” Coleman e, in un certo senso, anche la sua amante Faunia Farley.
La scrittura di
Philip Roth necessiterebbe un’analisi minuziosa per coglierne lo spessore
stilistico e psicologico, sensoriale e filosofico evidenziato da decine e
decine di dettagli, dall’accuratezza e dall’originalità dello sguardo, dalla
molteplicità e densità dei punti di vista, dalla complessità dei personaggi e
dalle loro relazioni, dal mistero della
vita che ne consegue.
C’è, infatti, un dialogo rivelatore in cui Coleman,
attraverso l’io narrante di Zuckerman, esprime
la sua filosofia ultima della conoscenza.
«Tutti
sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto
l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il
disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane?
Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e
l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la
presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così
insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato,
nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze?
Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente». La realtà è
irriducibile a qualsiasi tipo di categorizzazione. L’ontologia è una monumentale
illusione della civiltà occidentale, che – come ogni monumento – è destinato
prima o poi a crollare. Niente è come sembra. Tra verità e apparenza si erge
l’ostacolo insormontabile della complessità, che rende impervio qualunque
tentativo di imporre una tassonomia all’esperienza”.
Infine, questa
ricchezza strabordante della rappresentazione di Roth eccede, a volte, fin
troppo, tanto da appesantire la narrazione facendo sentire la presenza dello
scrittore più che dei personaggi. Ma anche qui c’è un risvolto, per così dire, eroico: come se Philip Roth non volesse avere limiti rappresentativi.
Philip Roth. La macchia umana. Traduzione
di Vincenzo Mantovani. Einaudi.
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