06 ottobre 2014

“L’entrata in guerra” “La giornata di uno scrutatore” di Italo Calvino




di Gianni Quilici

Leggendo questi due brevi romanzi di Italo Calvino ho immaginato, soltanto immaginato…. “come sarebbe bello fare una storia d’Italia attraverso migliaia e migliaia di romanzi e di racconti!....”. Una storia dove ci siano i fatti certamente, ma anche e forse soprattutto le condizioni sociali e psicologiche e quindi storico-antropologiche del potere e delle classi sociali, dei loro contrasti e connubi nelle varie realtà di una geografia italiana, che ha avuto ed ha oggi, almeno in parte,  le sue peculiarità specifiche.

Ne “L’entrata in guerra” siamo nell’estate 1940 in Liguria e nel secondo del trittico di racconti, a Mentone, che era stata annessa allora all’Italia.
Calvino descrive bene la miseria umana (si pensi al vecchio paralitico nella cesta), la violenza della guerra o la sua desolazione nella Mentone distrutta, deserta e vandalizzata e la volgarità esibita e becera dei fascisti ed invece il dolore,  la solitudine, una rivolta senza orizzonti dell’io narrante, poco più che adolescente, che diviene a volte poesia.
“Avrei voluto smarrirmi nella notte, votarmi anima e corpo a lei, al suo buio, alla sua rivolta, ma capivo che quel che in lei attraeva era solo una sorda, disperata negazione del giorno”.

Nel secondo romanzo La giornata di uno scrutatore Calvino opera una felicissima sintesi tra il racconto e la riflessione, in cui questa si fa essa stessa narrazione.

Siamo a Torino nel giorno delle elezioni politiche del 1953,  sotto il segno della  “legge truffa”.  Amerigo Ormea, militante del PCI, esce di casa alle cinque e mezzo del mattino per fare lo scrutatore al Cottolengo. Amerigo è un intellettuale deluso dell’Italia post-resistenziale, rispetto al clima vissuto immediatamente dopo la Liberazione, in cui “la gente era partecipe e  interessata alle questioni universali più che a quelle private”, mentre ora era ritornata lentamente “l’ombra grigia dello stato burocratico, la vecchia separazione tra amministratori e amministrati”.

L’Italia che gli si presenta agli occhi al Cottolengo è nascosta e miserabile: minorati e idioti, invalidi gravi e deformi. Questa umanità viene manovrata e strumentalizzata dal partito di governo, la Democrazia cristiana, e dalla sua alleata più potente e subdola, la Chiesa, attraverso l’azione cattolica, qui rappresentata dalla Madre superiora e da quell’esercito di suore, sprovvedute e fedeli vittime di un sistema più grande di loro.
Esemplare, in questo contesto, la figura dell’onorevole in visita  al seggio, autoritario e bonario, frettoloso e distante, chiuso nel suo piccolo potere.

E questa Italia povera e indifesa, inconsapevole e malata è scolpita con grande efficacia nel momento del voto, nei lunghi dormitori delle suore –file di baldacchini con tende bianche- nel camerone lungo, dove sono depositati coloro che non potevano lasciare il letto… Racconta Calvino: “… un grido acuto animale, continuo: ghiii…ghiii…ghi… che si levava da un qualche punto della corsia, a cui rispondeva a tratti da un altro punto un sussultare come di risata o latrato: Gaa! Gaa! Gaa!”.

Amerigo Ormea sa che la persona più indifesa ha il diritto di non essere trattata come un oggetto. E sa che è sbagliato sia l’estremismo, fare tabula rasa, sia chiudersi a riccio e anche rifarsi una verginità cercando di vedere con gli occhi dell’avversario le cose che lo avevano sdegnato, perché pure questo atteggiamento  nasconde in fondo  “il bisogno di sentirsi superiore, capace di pensare tutto il pensabile, anche i pensieri degli avversari, capace di comporre la sintesi, di scorgere dovunque i segni della Storia”.

 E qui sorge un rimuginare quanto mai attuale: il desiderio di una sintesi tra il rivoluzionario che si identifica con il diverso e l’animo liberale che oltrepassa l’intransigenza e lo schematismo presenti nel comunismo mondiale e che acquista la ricchezza delle sfaccettature e delle iridescenze di una mente libera.

Non solo, ma Amerigo Ormea intuisce che “compito della Storia” è quello di saldare in lui –e in tanti come lui- quel fuoco al di là di loro che supera tutti gli individui con tutte le debolezze. Un fuoco che è presente –secondo il protagonista- perfino in quella sezione elettorale: non solo in lui, ma anche nell’impazienza della donna socialista, nel bisogno del giovane democristiano di credersi su un fronte di battaglia insidiato  dai nemici e così via.

E’ la qualità di questi intimi ed anche contraddittori pensieri quanto mai vivi e attuali che fanno la grandezza del romanzo. Una riflessione che di fronte a questa umanità ferita mette in discussione lui stesso e la nostra presunta normalità.
 Amerigo arriva infatti a pensare:”Forse siamo, senza rendercene conto noi deformi, minorati rispetto ad una diversa possibilità d’essere dimenticata”.

Senza mai arrivare a conclusioni certe, neppure provvisoriamente.
“Non sapeva cosa avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come va vissuto quello che cercava di vivere”.

Italo Calvino. “L’entrata in guerra”. “La giornata di uno scrutatore”. Einaudi.

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