di Gianni Quilici
Leggendo questi
due brevi romanzi di Italo Calvino ho immaginato, soltanto immaginato…. “come
sarebbe bello fare una storia d’Italia attraverso migliaia e migliaia di
romanzi e di racconti!....”. Una storia dove ci siano i fatti certamente, ma
anche e forse soprattutto le condizioni sociali e psicologiche e quindi
storico-antropologiche del potere e delle classi sociali, dei loro contrasti e
connubi nelle varie realtà di una geografia italiana, che ha avuto ed ha oggi,
almeno in parte, le sue peculiarità
specifiche.
Ne “L’entrata in
guerra” siamo nell’estate 1940
in Liguria e nel secondo del trittico di racconti, a
Mentone, che era stata annessa allora all’Italia.
Calvino descrive
bene la miseria umana (si pensi al vecchio paralitico nella cesta), la violenza
della guerra o la sua desolazione nella Mentone distrutta, deserta e vandalizzata
e la volgarità esibita e becera dei fascisti ed invece il dolore, la solitudine, una rivolta senza orizzonti
dell’io narrante, poco più che adolescente, che diviene a volte poesia.
“Avrei voluto
smarrirmi nella notte, votarmi anima e corpo a lei, al suo buio, alla sua
rivolta, ma capivo che quel che in lei attraeva era solo una sorda, disperata
negazione del giorno”.
Nel secondo
romanzo La giornata di uno scrutatore
Calvino opera una felicissima sintesi tra il racconto e la riflessione, in cui questa
si fa essa stessa narrazione.
Siamo a Torino nel
giorno delle elezioni politiche del 1953,
sotto il segno della “legge
truffa”. Amerigo Ormea, militante del
PCI, esce di casa alle cinque e mezzo del mattino per fare lo scrutatore al
Cottolengo. Amerigo è un intellettuale deluso dell’Italia post-resistenziale,
rispetto al clima vissuto immediatamente dopo la Liberazione, in cui “la gente
era partecipe e interessata alle
questioni universali più che a quelle private”, mentre ora era ritornata
lentamente “l’ombra grigia dello stato burocratico, la vecchia separazione tra
amministratori e amministrati”.
L’Italia che gli
si presenta agli occhi al Cottolengo è nascosta e miserabile: minorati e
idioti, invalidi gravi e deformi. Questa umanità viene manovrata e
strumentalizzata dal partito di governo, la Democrazia cristiana, e dalla sua
alleata più potente e subdola, la Chiesa, attraverso l’azione cattolica, qui
rappresentata dalla Madre superiora e da quell’esercito di suore, sprovvedute e
fedeli vittime di un sistema più grande di loro.
Esemplare, in
questo contesto, la figura dell’onorevole in visita al seggio, autoritario e bonario, frettoloso
e distante, chiuso nel suo piccolo potere.
E questa Italia
povera e indifesa, inconsapevole e malata è scolpita con grande efficacia nel
momento del voto, nei lunghi dormitori delle suore –file di baldacchini con
tende bianche- nel camerone lungo, dove sono depositati coloro che non potevano
lasciare il letto… Racconta Calvino: “… un grido acuto animale, continuo:
ghiii…ghiii…ghi… che si levava da un qualche punto della corsia, a cui
rispondeva a tratti da un altro punto un sussultare come di risata o latrato: Gaa!
Gaa! Gaa!”.
Amerigo Ormea sa
che la persona più indifesa ha il diritto di non essere trattata come un
oggetto. E sa che è sbagliato sia l’estremismo, fare tabula rasa, sia chiudersi
a riccio e anche rifarsi una verginità cercando di vedere con gli occhi
dell’avversario le cose che lo avevano sdegnato, perché pure questo
atteggiamento nasconde in fondo “il bisogno di sentirsi superiore, capace di
pensare tutto il pensabile, anche i pensieri degli avversari, capace di
comporre la sintesi, di scorgere dovunque i segni della Storia”.
E qui sorge un rimuginare quanto mai attuale:
il desiderio di una sintesi tra il rivoluzionario che si identifica con il
diverso e l’animo liberale che oltrepassa l’intransigenza e lo schematismo
presenti nel comunismo mondiale e che acquista la ricchezza delle sfaccettature
e delle iridescenze di una mente libera.
Non solo, ma Amerigo
Ormea intuisce che “compito della Storia” è quello di saldare in lui –e in
tanti come lui- quel fuoco al di là di loro che supera tutti gli individui con
tutte le debolezze. Un fuoco che è presente –secondo il protagonista- perfino
in quella sezione elettorale: non solo in lui, ma anche nell’impazienza della
donna socialista, nel bisogno del giovane democristiano di credersi su un
fronte di battaglia insidiato dai nemici
e così via.
E’ la qualità di
questi intimi ed anche contraddittori pensieri quanto mai vivi e attuali che
fanno la grandezza del romanzo. Una riflessione che di fronte a questa umanità
ferita mette in discussione lui stesso e la nostra presunta normalità.
Amerigo arriva infatti a pensare:”Forse siamo,
senza rendercene conto noi deformi, minorati rispetto ad una diversa possibilità
d’essere dimenticata”.
Senza mai arrivare
a conclusioni certe, neppure provvisoriamente.
“Non sapeva cosa
avrebbe voluto: capiva solo quant’era distante, lui come tutti, dal vivere come
va vissuto quello che cercava di vivere”.
Italo Calvino. “L’entrata in guerra”. “La
giornata di uno scrutatore”. Einaudi.
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