Leggo il libro “Non è che l’inizio” di Gianni Quilici. La lettura scorre via veloce,
lineare. I periodi sono chiari e ben connessi; la storia è avvincente, si ha
voglia di continuare, di inseguire fino in fondo senza interruzione le dieci
giornate della narrazione.
E’ un racconto esistenzialista (non è casuale che
l’autore vi abbia apposto per esergo una frase di Sartre). Sono dieci giorni
nella vita di un giovane adulto, insegnante precario, colto, impegnato, ricco
di vita e di desideri insoddisfatti.
Come
è inevitale in un’opera prima, c’è una forte componente autobiografica nella
figura del protagonista, Zeta, che narra in prima persona. Vengono descritti
alcuni avvenimenti: gli incontri, gli scontri, i pensieri, i sogni e i
sentimenti. In particolare: alcuni incontri sessuali con due figure femminili
volutamente tra loro abbastanza indistinguibili perché non importanti nel
vissuto sentimentale del protagonista, l’esperienza di una breve supplenza in
una scuola media che non appare all’altezza del suo compito educativo, il
progetto di una manifestazione politica che non si concretizza perché proposta
a un Partito Comunista che sta definitivamente chiudendo la sua storia di
soggetto sociale del cambiamento. Le
vicende si svolgono nel fatidico anno ’89; le situazioni tendono a ripetersi, inevitabilmente
del resto perché gli eventi si consumano nell’arco di pochi giorni.
Il racconto procede come in una serie di sequenze
filmiche: scene che si alternano e si ripropongono nella continuità di un tempo
che appare, fino quasi al termine, senza prospettive, e che mi fanno pensare,
anche per la cultura cinematografica dell’autore, a certi registi della “nouvelle
vague” francese degli anni ‘60 (Godard per esempio, o Rhomer).
Tutto
è detto, il vissuto del protagonista è rappresentato interamente, niente viene
nascosto, neppure i fatti più personali che attengono all’espletamento delle
funzioni fisiologiche quotidiane. Mi viene in mente il flusso di coscienza di
Molly Bloom alla fine dell’Ulisse, che però e molto più frenetico e caotico.
Ma c’è qualcosa che non mi torna. Tutto sembra
troppo semplice. Rifletto. Le cose cominciano così a presentarsi più complesse
di quanto appaiano a una attenzione superficiale. Sento tra l’altro che questa
storia mi riguarda, riguarda una generazione che ha visto in quel periodo il
definitivo fallimento delle ultime speranze di cambiamento collettivo e individuale.
Mi stupisce la forte componente erotico-sessuale
che sembra prevalente, anche a rischio di un certo squilibrio. Certo - mi dico
- si tratta di un giovane, è quindi normale la carica di erotismo che gli occupa
la vita. Ma il sesso qui è perseguito con una ossessività compulsiva feroce e quasi
oscena, come dovesse riempire il vuoto di altre assenze.
Faccio un esperimento. Provo a leggere,
utilizzando la metafora erotico-sessuale, anche gli altri eventi non
direttamente legati al sesso. Del resto la sua presenza mi appare tanto forte
da poter dare colore anche al resto del racconto. Temo però che una simile
lettura sia troppo personale, insomma che sia io quello ossessionato dal tema
del sesso e che tende perciò a ingigantirlo oltre la misura della narrazione;
ma poi ricordo la mia convinzione che ogni opera artistica, letteraria o figurativa,
mostri d’essere tanto più valida ed efficace quanto più riesce a muovere le
emozioni del lettore, a indurlo a proiettarvi anche il proprio pensiero e la
propria immaginazione. Così mi assolvo e vado avanti.
Vista attraverso la metafora sessuale
la breve esperienza di insegnamento del protagonista a cosa potrebbe
assomigliare? Ma è evidente: a un “coitus
interruptus”, a un rapporto che cessa proprio nel momento in cui sta per
realizzarsi, in qualche modo, la possibilità di una soddisfacente relazione (nel
caso educativa).
A
sua volta l’esperienza della iniziativa, proposta e non realizzata, con il Partito
Comunista locale assume l’aspetto di una frustrante “impotentia coeundi”: è impossibile avere un rapporto, anche
sessuale, con qualcuno che ormai non ci piace, non ci dà più stimoli
sufficienti (nel caso politici).
Questo gioco mi diverte, perciò tento
mentalmente un’altra operazione, compio un cambiamento nella metaforizzazione;
applico la metafora dell’insegnamento alle altre situazioni del racconto.
Così la proposta di iniziativa (pedagogica?) di
Zeta al partito fallisce,viene rifiutata, più che per insufficienza
concretizzatrice del protagonista, per disattenzione e incapacità di ascolto da
parte dei membri della federazione. E’ comunque una proposta ormai troppo
ambiziosa per la realtà politica di “alunni” stanchi e indisciplinati, con il
cervello da un’altra parte e che se ne fregano della lezione.
Le vicende erotico-sessuali, nella loro ossessiva
ripetitività, mi appaiono allora simili all’azione quotidiana di un educatore
che replica continuamente la stessa lezione senza mai riuscire a coinvolgere
gli alunni. Un processo di formazione quindi che non raggiunge mai il risultato
sperato, e viene sempre di nuovo riproposto con una coazione a ripetere tipica
della “sex-addiction” (una forma di ipersessualità patologica simile alla
dipendenza da droga).
Vado avanti, cambio di nuovo metafora utilizzando a
tale scopo la frustrazione politica: il fallimento della proposta di Zeta si
riflette, dando loro significati analoghi, anche sulla fine irrisolta
dell’esperienza nella scuola e sull’inappagata coattività delle esperienze
sessuali.
E’ bene però che chiuda con questo
gioco circolare delle metafore, rischia di essere riduttivo rispetto allo
spessore e alla complessità del romanzo.
Comunque
questa intercambiabilità del senso mi è servita a capire quanto tutte le
esperienze vissute dal protagonista, nell’arco dei dieci giorni, siano
avvertite dallo stesso come insoddisfacenti, inconcluse, e anche inutili;
inadeguate a dare senso all’esistenza. Sono tutte caratterizzate e accomunate
infatti, anche se in modo diverso, dal fallimento e dalla delusione. Ma proprio tutte?
Ci sono alcuni aspetti del racconto che
mi emozianano più a fondo e che lo arricchiscono di contenuti che mi
coinvolgono in maniera quasi diretta, forse perché appartengono anche alla mia
esperienza interiore.
foto Gianni Quilici |
Intanto la presenza di una città, Lucca, magica e incantata, come sa bene Gianni che la ritrae spesso in fotografia, col piacere di sublimare in immagini la pulsione voyeristica per ciò che in modo sensuale ci attrae . Infatti ognuna delle dieci giornate del racconto è introdotta da una foto di qualche angolo o scorcio della città. Peccato però che la carta di un libro sia poco adatta a rendere pienamente la qualità delle immagini fotografiche che Gianni ci ha abituato ad apprezzare.
Comunque Lucca c’è. Si avverte costante la sua presenza. Rappresenta molto di più che lo sfondo del racconto, la sua è una dimensione di vita. Per chi, come me, ha trascorso in questa città l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza non può che condividere l’appassionata aderenza dell’autore alla meraviglia delle sue architetture, strade, piazze, chiese, vicoli e quant’altro ci è stato lasciato in retaggio quasi incontaminato (intendo l’ambiente fisico-artistico della città, non quello socio-culturale che meriterebbe ben altre considerazioni).
Ma c’è un’altra presenza forte nel
racconto, direi prevalente nell’anima del protagonista. E’ una fanciulla,
l’unico personaggio degno di avere un nome personale (gli altri sono definiti
con soprannomi o specificati dalle loro funzioni): “Eloisa”. E’ un nome, tra
l’altro, che è entrato a far parte dell’immaginario erotico collettivo (come
quelli di Isotta e Francesca).
Nel racconto mi sembra che Eloisa rappresenti,
anche simbolicamente, ciò che può dare senso all’esistenza, qualcosa che il
protagonista cerca inutilmente nei frustranti accadimenti delle sue esperienze
quotidiane. Qualcosa che rassomiglia all’amore: un “amore” che, pur
contenendolo, va al di là del desiderio sessuale. Con Eloisa il rapporto
sessuale non si realizza, almeno nei limiti del racconto, e il personaggio
resta sfuggente, avvincente e indecifrabile, come sempre lo è anche l’amore.
Presenza/assenza assiduamente cercata, non sempre trovata e mai definitivamente
conquistata. Ma la sua relazione con Zeta, inconclusa, è l’unica che può avere
una evoluzione, che è aperta alla “possibilità”.
Capisco allora che quella dell’apertura al “possibile” è forse la giusta cifra di lettura, l’interpretazione di fondo che mi si offre del libro di Gianni.
Esistono
nel reale possibilità inespresse, latenti, che aspettano di essere scoperte e attuate
per realizzare un futuro migliore. La categoria del possibile - ci sta dicendo l’autore - supera quella
della realtà, si situa a un livello più alto. Esiste sempre attorno alla vita
di ognuno una nuvola di possibilità che aspettano di avverarsi e che caratterizzano
l’essenza stessa dell’essere e dell’esserci
dell’uomo; spetta a noi di liberarle e svilupparle individuando le
potenzialità nascoste dell’esistenza.
Nel racconto è la relazione del
protagonista con Eloisa che simboleggia, nella sua indeterminata ma aperta
potenzialità di sviluppo, la categoria del possibile e che rende quasi ottimistica
la conclusione del libro, fino ad esprimersi nella densita lirica di una poesia
che innalza al canto l’accettazione vitalistica della condizione umana.
Non
saprei altrimenti spiegare l’erompere, nell’ultima pagina, di una gioia e di
un’esaltazione che potrebbero sembrare gratuite e immotivate, ma che invece segnalano
la scoperta che tutto è ancora possibile, che, nonostante i fallimenti, le
delusioni e l’insoddisfazione della quotidianità, il futuro è ancora da
scrivere, che si può ancora “osare tutto”.
Personalmente non condivido l’ottimismo
di Gianni (sono un po’ più nichilista), ma questo non ha niente a che fare con
la qualità del libro che, trattandosi oltretutto di un esordio letterario, mi
sembra sorprendentemente ricco e maturo.
In
definitiva Gianni ha condensato, con notevole senso del limite narrativo, nei
dieci giorni di una vita la storia della conquista, tormentata e sofferta, di
un “amore” (non vedo quale altra definizione dare) che oltrepassa la
contingenza particolare degli eventi, lungo un percorso che arriva a sciogliersi
e risolversi nella dimensione di un’idea universale dell’esserci umano.
E’
dentro questa dimensione dell’amore che Zeta accetta infine di gettarsi, come
dentro una poesia.
Vista la qualità dell’esordio, spero che il titolo “E’ solo l’inizio” che Gianni Quilici ha dato al suo libro non sia soltanto una citazione dal maggio francese, ma una promessa.
Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. € 13.00
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