15 agosto 2016

"Marguerite Duras: una biografia dello stile e della visione"



di Davide Pugnana

Solo le bancarelle delle fiere regalano doni librari inaspettati. Lì, in quelle effimere arche, mescolati alla buona sopravvivono autori e titoli scomparsi ormai da decenni, e mai più ristampati. I cacciatori di libri "fuori catalogo" conoscono il piacere di quell'adrenalina delle mani cacciate nel mucchio indifferenziato dei volumi, come sonde marine calate nell'ignota ricerca di piccoli e grandi corpicini dispersi. E' un lavorio nobile e sacro, parente alla lontana dello scavo archeologico.

Per quanto mi riguarda, l'ultima immersione ha portato alla luce l'introvabile libriccino di Franco Russoli sul museo, un'edizione Vallecchi del "Dizionario" dei Tommaseo, le lettere di Augusto Monti e l'esile, aereo, impalpabile Moderato cantabile di Marguerite Duras. Erano anni che non vedevo questo piccolo romanzo dimenticato. Se avessi cercato altrove, in canali ufficiali, diciamolo pure: se mi fossi affidato alle case editrici italiane non avrei ricevute che incerte notizie, siglate da un definitivo e mortifero: "Ei fu."

Il continente Marguerite Duras si è trasformato in questa terra solo per metà emersa. E' un dato di fatto, registrabile direttamente sugli scaffali delle librerie. Il punto dolente è che questo corpo invisibile di buona parte della produzione durasiana, nel paesaggio editoriale italiano, non è il risultato di una sfortuna critica o di una perdita di modernità imputabile all'opera; ossia non è una scomparsa riferibile a dati 'oggettivi' o endogeni, quali la perdita di tenuta espressiva o l'inattualità dei contenuti. E', al contrario, un'assenza che ha un'origine esogena, esterna all'opera, imputabile all'interruzione di stampa da parte della casa editrice Feltrinelli. La quale ha eliminato dallo scaffale delle librerie gran parte delle opere più importanti della scrittrice, riducendone la presenza ai romanzi più vendibili: sostanzialmente, L'amante e Il dolore. Questa scelta addomestica la produzione di Duras, facendola apparire nella falsa luce della scrittrice di romanzi d'amore al limite del bollino "rosa".

Dove sono finite opere potenti come Una diga sul Pacifico, Il marinaio di Gibilterra o racconti bellissimi come Le boa e Les chantiers? Perché testi fondamentali come La vie tranquille e Il ViceConsole, o terribili come La vita materiale, sono stati deliberatamente esclusi? Perché, forse, non sono più di moda nell'orizzonte di attesa dei lettori di oggi? Eppure, la scrittura di Duras è quanto di più 'moderno' ci sia: una prosa asciutta, rapida, tutta nervi scoperti, fittamente dialogica, epifanica nel suo andare sottopelle alla natura e ai rapporti umani. Uno stile condotto 'per via di togliere' che Tomasi di Lampedusa avrebbe certamente collocato nel novero dei romanzieri "magri", i maestri del non detto che, con infinita sapienza, dicono tutto con poca e avara materia. Se quello modale fosse il fattore cruciale, allora dovrebbe scomparire anche l'altra Marguerite della letteratura francese del Novecento, la Yourcenar, che, per un bizzarro paradosso, figura tutta editata. Proprio lei: la scrittrice "grassa" par excellent, con i suoi romanzi storici polifonici, colti, raffinati e sintatticamente complessi. Non è, dunque, una questione di stazza.

Ironia a parte, la domanda diretta e legittima è quella che ruota attorno al caparbio "perché". Perché leggere ancora i testi di Marguerite Duras? D'acchito verrebbe da rispondere perché è una grande scrittrice; ma la frase suonerebbe vuota e generica, al pari di quel fraseggio dei critici d'arte che definiscono qualsiasi stesura pittorica con pretese vagamente impressioniste con "la pennellata veloce e luminosa" .

Per scendere al cuore dei testi occorre interrogare le radici stesse della scrittura; non solo la capacità di narrare, non solo la poetica che li sottende e la profondità di osservazione della natura umana, colta in sé e nella ragnatela, storica e sociale, dei rapporti. Occorre spingersi molto più addentro. Occorre intraprendere un viaggio nel lievito cavo e segreto di quegli scenari fantasmatici che si strutturano negli anni, a partire dal modo in cui i 'fatti veri' cadono nell'inconscio dello scrittore. In quel cono d’ombre si annidano le molle generatrici dei grandi classici.

Il grimaldello per capire il côté sommerso della scrittura di Duras è un saggio italiano, uscito quindici anni fa per i tipi casa editrice pisana ETS. Pur essendo molto restio a gerarchie e classifiche, devo convenire che Marguerite Duras un'arte della povertà. Il racconto di una vita, sia il più bel saggio italiano sulla scrittrice francese. In questo caso, il primato non va solo al 'come' è scritto, alla tensione della prosa saggistica tenuta sul filo di confine di registri stilistici diversi (una vena saggistica trepida e lucidamente  malinconica, intervallata da snodi narrativi e incursioni di realismo visionario). Il punto di forza di questo lavoro è anche la qualità della ricostruzione dell'itinerario di Duras: il tipo specifico di ricerca e di scavo nelle carte e nei testi di Duras; il modo stesso in cui i documenti vengono intrecciati l'uno con l'altro, all'interno del sistema-Duras e alla luce della storia, con l'obiettivo di non inciampare - e, quindi, di attentamente evitare e criticare - nella mera cronaca biografica, di gusto saintbeuviano e positivista. Gli stessi strumenti psicoanalitici, messi in campo come chiavi ermeneutiche, non peccano di autoreferenzialità, né sboccano nello scabro referto clinico, ma sono tenuti rigorosamente al servizio della verità del testo: essi devono interrogare l'inconscio del testo, sviscerarlo laddove ciò che era vissuto si è fatto scrittura.

Per questo motivo, il saggio di Norina Fornasier è un viaggio dedicato a quanto di più fondo, oscuro ed intimo si muove sotto la ricerca di Duras: quella verifica della vocazione che avvicina, in un accostamento imprevisto e spiazzante, Duras a Proust.

Basti, tra i molti che punteggiano il saggio, un passo che racchiude lo splendore e l'alto tenore di questa ricerca: "A lei, la più proustiana forse tra gli scrittori del nostro secolo, che condivide condivide con Proust la passione della vita allacciata alla morte e la volontà di investire tutto, a lei, destinata a scrivere dopo l'Olocausto e compagnadell'Angelo della Storia di Klee, è in qualche modo affidato affidato il affidato il gesto opposto a quello proustiano: svuotare quel regno dell'abbondanza in cui niente doveva andare perduto, svuotare quella frase proustiana che si apre continuamente su se stessa, si apre larga e si dilata per contenete e ospitare il più possibile del mondo, con la sua bellezza e il il suo orrore, le sue luci e le sue ombre, tutta quella ricchezza dolorosa che è la vita sedotta dalla morte. Duras scrive con lo stesso stupore proustiano, e ama e patisce accettando di essere privatalei, l'artista, di questo 'secolo breve' della 'felicità' proustiana. Lei scrive nell'infelicità meravigliosa di scriveree accetta di sposare soprattutto il dolore e di accogliere l'ombra mentre la luce rimane, nella sua opera, come un'invocazione e un'attesa. E così, mentre Proust riempie la 'casa del linguaggio' di parole 'materne' che seducono la morte nutrendola con tutti i nomi della vita, così che alla fine, quasi vinta, accetti di confondersi con essi, allo stesso modo, animata dal medesimo desiderio proustiano, Duras svuota questa casa di tutte, o quasi, le sue ricchezze."

Il sottotitolo del saggio, “il racconto di una vita”, può trarre in inganno, richiamando il lettore nei confini di un genere vagamente romanzesco quali sono le vite d'artista. È questa la prima pietra d'inciampo da evitare. Non ci troviamo al cospetto di una biografia dello scrittore. Certo, i primi due capitoli, dedicati all'analisi delle origini e dell'infazia di Duras, possono avvallare questa suggestione; ma è sufficiente percorrere le prime cinquanta pagine per ritrovarsi in uno scenario tutt'altro che cronachistico. In questa lunga soglia, dedicata alle scaturigini della vocazione di Duras alla scrittura, accadde qualcosa di strano: ci troviamo a compiere una sorta di movimento in obliquo che va a tagliare i dati storici e biografici in modo del tutto inaspettato. Laddove ci si aspetterebbe una crononologia dei fatti troviamo atmosfere, luci ed ombre, suggestioni sinestetiche, in uno sprofondamento memoriale che mette in moto un'identificazione assoluta e viscerale dell'autore con il suo oggetto di studio, accordando tutto il testo su una valenza e un sapore intimamente proustiani, fin dall'incipit, in quel suo rievocare, sotto il morso di una luce aurorale, isole remote del vissuto di Duras: “Le sue radici sono lontane, immerse nelle terre paludose dell'Indocina”. 
Questo attraversamento di taglio degli scenari lontani del romanzo di formazione durasiano ci conduce nei diversi heimat della scrittrice: luoghi, persone, nomi che, nelle loro ignote risonanze inconsce, costituiranno, per sempre, la materia dolorosa e terribile della sua ricerca di verità. E non sono solo i sostantivi fisici e familiari ad essere messi in gioco. Lungo questo viaggio di paziente ricucitura e di ostinato ascolto, sono disseminati dettagli che spalancano tutto un mondo di percezioni sensoriali, prossime a diventare simbolo o luogo di intensità della parola poetica, così come ci immaginiamo possano entrare negli occhi di un artista che ancora non ha coscienza piena della sua vocazione: “la domenica mattina, quando il cielo era tinto di grigio, di quel grigio che solo il cielo del Nord conosce”; “l'aria fredda [che] odorava d'inverno”, le immense risaie, le terre alluvionali, le prime parole messe per iscritto, la mescolanza dell'amore e della morte nell'episodio del giovane vietnamita e della lebbra a Mékong: “Qui, in questa terra abbagliante di contrasti, la memoria comincia a tessere la sua trama e disegna  i confini di un regno di suoni, colori, di immagini incoruttibili ed eterne, le radici dell'opera futura.”

Se fossimo costretti ad usare il termine biografia – questo genere non sempre affidabile della saggistica - per dare un nome a queste pagine viscerali su Duras, il termine acquisterebbe la sua giusta luce se corretto con il complemento di specificazione aggiuntovi da Nabokov: “dello stile”. Biografia dello stile è, infatti, la definizione più esatta del saggio di Norina Fornasier. Lo dimostrano tanto le pagine sui nodi di origine, quanto quelle sull'infanzia che si aprono su un “paese d'acqua” e l'acqua, assieme alla foresta, sarà l'elemento simbolico che permeerà di sé l'intera ricostruzione dei luoghi della scrittrice, “luogo di godimento, di fusione, di passività felice” e “trama fantastica di un paesaggio che è il rovescio del mondo”: Vinh Long, il maestoso e leggendario fiume Mékong, vicino al quale si dispone la famiglia di Marguerite.

Punto di forza del saggio è l'assoluta centralità dei testi:, la loro presenza, il loro rincorrersi e intrecciarsi, è un dato costante e inderogabile, come il più fidato dei testimoni, come la più fidata delle porte per nominare gli invisibili meccanismi del sottosuolo. È da questa voce dei testi che Norina Fornasier costruisce la sua analisi dell'infanzia e della formazione di Marguerite Duras, dalle pagine memorabili su Saigon, alle dinamiche feroci e struggenti del rapporto con la madre e il fratello; dagli anni della scuola al trasferimento in Francia, come assistessimo al passaggio da un mondo di natura ad un mondo di civiltà. Troppo brevi sono lo spazio della recensione e la pazienza del suo lettore per poter citare interi passi segnati a lapis durante la lettura; tuttavia voglio trascriverne almeno uno, capace di dare il polso della bellezza di questa ricostruzione profonda delle radici durasiane, dal punto di vista esclusivo e interiore della biografia dello stile :

“Sulla veranda ormai abbandonata, di fronte a loro è il Siam, immenso e oscuro, con le sue foreste che nascondono gi animali feroci che lei [Duras] ha imparato a conoscere. Un silenzio avvolge le cose, il corpo è teso nello sforzo di raccogliere tutto: le immagini, i profumi, i suoni, il soffio del vento caldo sono raccolti e custoditi nello scrigno della memoria. Quando le terre natali diventaranno lontane e il sentimento dell'esilio disegnerà nuovi confini, la memoria condenserà in poche immagini capitali l'intreccio del vissuto, e l'opera diventerà la nuova terra. Il testo si costituirà come un tessuto in cui il ricordo è la trama e l'ordito è l'oblio. L'oblio che non è assenza irrimediabile ma, come anche Freud e Proust ci raccontano, presenza che si è allontanata solo momentaneamente da sé.”  In viaggio con l'opera apre la seconda parte del saggio e si configura come la verifica e la dimostrazione di tutto l'ascolto poroso e paziente dei primi capitoli. L'analisi serrata delle opere è il banco di prova, testi alla mano, dell'intreccio pazientemente ordito a partire dagli scenari fantasmatici dell'infanzia di Duras.Si va da Una diga sul Pacifico a L'aprés midi di M. Andesmas, passando per i testi chiave di Duras, nella misura breve dei racconti (Le chantiers, Le boa) e in quella lunga (Il marinaio di Gibilterra, il sublime Moderato cantabile). Sono queste anche tra le pagine più narrative del libro. 

Ancora un appunto merita di essere fermato. Questo saggio non è solo una biografia dello stile di Duras, o, ancora meglio, per richiamare un binomio proustiano, una serrata analisi della sintesi tra “visione” e “stile”. Esso racchiude anche una piccola antologia portatile; una sorta di diario di letture tenuto in filigrana come una mappa di segni luminodsi che molto ci dicono sull'esperienza dell'autrice. Non c'è sezione che non abbia sulla soglia il testo di un altro autore: la voce ora di un poeta, ora di un filosofo, ora di un narratore, ora di uno studioso che, con la loro intuizione delle cose, riescono, per forza di corrispondenze impreviste, ad illuminare zone inespresse dei testi di Duras. Il nome chiave è quello del Rilke poeta, la cui presenza si dipana come un filo rosso dentro ogni capitolo, a testimoniare una lunga frequentazione e una segreta consonanza di visione con l'autrice del saggio. E con Rilke, Emily Dickinson, Nabokov stesso, Kafka, Nietzsche, il bellissimo passo di Sant'Agostino sul tempo.

Ci sono recensioni che scaturiscono di getto, senza nessun diaframma e altre che, per molti anni, rimangono, stupefatte e intimidite, nella lunga e sacra scia d'ombra del libro che non si sa, o non ci si autorizza, a nominare fno in fondo. Questa recensione ha atteso ed è cresciuta dentro di me per dieci anni. Dieci anni lungo i quali infinite volte, nella mente e sulla carta, ho provato a scriverla senza successo; senza cioè che le parole dessero una pur minima traduzione della sostanza profonda dell'opera e, attraverso questo, del rapporto commovente e viscerale che mi teneva, e mi tiene legato a questo libro-madeleine, come in un'aura senza tempo.  Solo oggi la sproporzione tra la piccolezza delle mie parole e il senso di questo saggio si è assottigliata quel tanto che mi ha permesso di mettere per iscritto la mia esperienza di lettura e una zona del mio vissuto irrigata di malinconia e nostalgia. In questo saggio magistrale si condensa tutta una stagione di vita, ore e giorni che ne illuminano ogni pagina e ogni suono di parola. 

Ed è su un ricordo personale, che illumina e racconta una parte di vita e di lavoro dell'autore del saggio,  voglio concludere questa riflessione. Il 2006, nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in un torno d’anni particolarmente fecondi – non sapevo sarebbe arrivato l'incontro più importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui stile e pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni, 2012), studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo; attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di discipline ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia, le pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo, gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come un romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un giorno seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già incamminato, non l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere di scrivere esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo senso dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su Baudelaire e Proust.

Nori Fornasier, Marguerite Duras, un'arte della povertà. IL racconto di una vita, ETS, Pisa, 2001

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