23 agosto 2016

"Il processo creativo: ruolo dell’interlocutore privilegiato" di Daniela Toschi



Lo psicoanalista francese Didier Anzieu (Melun, 1923; Parigi 1999), il cui contributo più noto alla psicoanalisi è il concetto di “io-pelle”, si è occupato anche, e a più riprese nel corso della vita, del “processo creativo”. La sua opera più completa sull’ argomento è Le corps de l’oeuvre (1981), ma è probabile che questo interesse sia nato molto precocemente, mentre preparava la tesi che aveva per oggetto l’autoanalisi di Freud (pubblicata per la prima volta nel 1959) o, chissà, mentre indagava, nel corso della sua stessa analisi, sulla fissazione creativa della propria madre (che altri non era che la famosa “Aimèe”, il primo caso descritto da Lacan). Dotato di “scetticismo, rigore e serenità”, doti che egli ritiene essenziali in ogni psicoanalista, Didier Anzieu è piacevole da leggere e ricco di spessore; ma sfortunatamente solo poche delle sue opere vengono ristampate in italiano.

Il testo che segue, traduzione di un brano tratto da L’auto-analyse de Freud (riedizione del 1975) mi è sembrato curioso e interessante, in quanto sottolinea il ruolo dell’altro, in qualità di interlocutore privilegiato, nel corso del processo creativo, accostandolo niente meno che al concetto di “madre sufficientemente buona” di Winnicott.

                                         “Per effettuare una scoperta o comporre un’opera innovatrice si rende necessario superare due resistenze. La prima è una resistenza epistemologica, che i lavori di Bachelard (1938) hanno già messo bene in evidenza: ciò che uno già sa costituisce una forza di inerzia che paralizza e impedisce di afferrare  ciò che si potrebbe trovare di nuovo. Inventare è contraddire, è dimenticare le vecchie acquisizioni, troppo condivise, per immergersi, da solo, in un qualche strato molto antico di se stesso; è riportare alla memoria  un’immagine personale che si trova depositata, e far germinare da essa la scoperta, l’opera.

E’ in seguito che interviene la seconda resistenza, che non è senza analogia con ciò che Freud descriverà, verso la fine della sua vita, come la relazione terapeutica negativa (1937). Questa consiste in un dubbio corrosivo, demoralizzante, sul valore di ciò che si sta per trovare e sulla propria capacità di portare a termine la dimostrazione, la redazione, la composizione. Negazione dell’opera che siamo sul punto di generare, di portare fuori da noi stessi, negazione di sé come padre-madre possibile di questa opera che rechiamo in grembo. Si può indovinare la natura delle angosce sottostanti: sentimenti di colpa, secondo i “freudiani”, per il bambino concepito nell’immaginazione con uno dei due genitori; secondo i “kleiniani”, fantasma che fa ritorno, sicuramente interessato ad introdursi nel ventre della madre per distruggere il pene del padre e i bambini in gestazione. Quale che sia il cammino che imbocca, è evidente che qui, ad operare, è la pulsione di morte,  pronta a portarsi in ogni luogo di creatività nascente per distruggerla in embrione e compiere le parole del poeta (Paul Valéry, Le cimitiére marin):

“… Rendre la lumiére
 Suppose d’ombre une morne moitié”
 
Se la prima resistenza trova la sua soluzione nella solitudine, in un ripiego su se stessi nel quale è facile distaccarsi dal pensiero comune e nel quale, ritrovando se stessi, si finisce per scoprire ciò che si cercava, va ben diversamente per la seconda: qui l’aiuto non può venire che da un altro. Le caratteristiche di una tale relazione con l’altro cominciano ad essere conosciute. E’ colui con cui il potenziale creatore “condivide il suo segreto”; così il romanziere Joseph Conrad ha potuto produrre il meglio di sé e raggiungere una grande notorietà fintanto che è durata la sua amicizia con Ford Maddox Hueffer; la brusca interruzione di questa amicizia, nel 1910, coincise con un abbassamento della sua produzione artistica.

Masud Khan (1970) studia la relazione tra Freud e Fliess alla luce della relazione di Montaigne con La Boétie, che,  continuando interiorizzata anche alla morte del secondo,  permise al primo di concepire Les Essais,  contrapposta alla serie di relazioni maschili e femminili che furono necessarie a J.J. Rousseau per portare a termine Le Confessioni, opera nella quale l’autocritica si alterna con l’auto-elogio senza sfociare, contrariamente a Montaigne, nell’acquisizione di processi psichici universali. Masud Khan parla di una “funzione catalitica” che si compie  grazie allo scambio intellettuale e affettivo con un amico privilegiato.

Questa funzione è incontestabile e, salvo poche eccezioni, necessaria ad ogni grande creazione. Il partner può essere dello stesso sesso o del sesso opposto; la relazione con lui, sempre in qualche modo erotizzata, può o non può soddisfarsi sul piano delle relazioni sessuali: questi sono solo fattori associati. L’essenziale risiede in qualcosa di difficile definizione, che manca di un concetto adeguato, ma che si può descrivere come l’immediatezza di comprensione del partner di fronte alle rappresentazioni mentali che il potenziale creatore trae dal proprio fondo e prova a comunicargli. Con lui, lui solo, quest’ultimo non deve, come davanti alla sua pagina bianca o come col resto dei suoi contemporanei, lottare per esprimersi e per farsi comprendere. Questo amico entra d’emblé nelle particolarità idiosincrasiche dell’organizzazione delle sue sensazioni, delle sue immagini, dei suoi affetti; talora vi ritrova egli stesso il proprio vissuto; talora, e ciò è ancora più prezioso, egli è convocato in una zona del proprio essere di cui non era cosciente, nella quale ragiona attivamente, intensamente, favorevolmente ai propositi del genio creatore, e a partire dalla quale invia di ritorno a costui un’eco amplificata e arricchente di quella voce interiore che gli sussurrava, ancora incerta e balbettante, le premesse di qualche scoperta.

L’amico privilegiato incarna per il creatore il polo di minor resistenza, e il feed-back regolatore che proviene  da questo amico attenua nel creatore quella resistenza interna che ogni progetto di creazione contiene al massimo grado.

Come rendere conto di questo fenomeno in termini psicoanalitici? L’espressione “risonanza fantasmatica” adottata da certi psicoanalisti  pratici di metodi di gruppo, per definire le congiunzioni profonde che si stabiliscono subitaneamente tra due persone in un contesto collettivo, resta ancora troppo descrittiva. Che si tratti di un gioco reciproco di identificazioni e di proiezioni è ben evidente, ma resta oscura la risposta a queste domande: quali identificazioni, quali proiezioni, quale gioco? La nozione di “identificazione proiettiva” non ci sembra sufficiente, anche se si avvicina molto al processo osservato. Il meccanismo del fenomeno transizionale, di cui si deve la scoperta a Winnicott, ci sembra più adeguato. Il creatore si sente direttamente compreso dal suo amico come il piccolo lo è, intuitivamente, da sua madre. Quasi incapace di dissociare dal principio di piacere un principio di realtà (senza di che non sarebbe inventivo) e avendo bisogno di affidare a qualcuno in cui ripone totale fiducia il compito di procedere, al posto suo, alla prova di realtà, egli elegge il suo partner a tramite e intermediario tra questa realtà e lui stesso, mentre, allo stesso tempo, si procura un va e vieni di onnipotenza fantasmatica in una sorta di commutatività narcisistica.

Per portare a termine una creazione, quando si è dominati dal dubbio distruttore, non è forse necessario ritrovare l’illusione primaria, permessa da una “madre sufficientemente buona”, di avere pieno potere sul mondo? Tra l’autore e l’amico, l’opera nasce come uno spazio transizionale.”

 Didier Anzieu  L’auto-analyse de Freud, Presses Universitaire de France, 1975, pp. 159-162.

18 luglio 2011                                                       dal blog di “Bartolomeo Di Monaco”


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