di Gianni Quilici
Era il maggio 1965. Il Giro d’Italia affrontava la tappa forse più impervia: l’arrivo in cima al passo dello Stelvio, la famosa cima Coppi. Fu una giornata infernale: i corridori affrontarono la terribile salita, stretti tra un mare di folla, tra neve, freddo e pure la nebbia, ai 2000 metri. Una di quelle giornate epiche, che fanno del ciclismo lo sport più eroico e leggendario.
Ebbene Giorgio
Lotti ebbe il colpo d’occhio e l’abilità di realizzare questo scatto di rara
intensità, diventato famoso per almeno due ragioni.
La prima: è riuscito con una foto a simbolizzare il ciclismo nella sua profondità, là dove è costretto ad affrontare temperature proibitive lungo strade improbe. Uno scatto, va precisato, non casuale. Giorgio Lotti, infatti, restringe l’inquadratura in un primissimo piano, ingigantendo il volto nella sua essenzialità: gli occhi, le sopraciglia e gli zigomi cosparsi di graffi, di spruzzi e di strisce di neve in una faccia scavata e imbrattata di polvere che sa di strada e che il bianco/nero della pellicola potentemente marca. E, come contrasto, gli occhi obliqui di immota fermezza, di chi ha appena vissuto uno sforzo tremendo, ma è saldo, non è stato travolto, come un antico guerriero.
La seconda: Questo volto è Felice Gimondi. Gimondi 23enne al suo primo Giro d’Italia, gregario di Adorni, che vincerà il Giro, e tuttavia arriverà terzo e che riuscirà, da predestinato, a vincere a luglio il Tour de France, pur avendo partecipato solo per sostituere all’ultimo momento un suo compagno. Da lì è iniziata una carriera ciclistica che lo ha imposto, forse, come uno dei più grandi ciclisti italiani del dopoguerra, dopo Fausto Coppi e Gino Bartali, pur avendo avuto la concorrenza del più grande ciclista di tutti i tempi: Eddy Merchx
Felice Gimondi foto di Giorgio Lotti. Passo dello Stelvio. 1965
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