di Gianni Quilici
Primo: sono lettere
di Antoine De Saint-Exupery ( pilota-scrittore, autore de Il piccolo principe”) e
sono inviate ad un’amica ipotetica, Rinette, inventata, a cui si rivolge con disilluso
affetto, mai idealizzandola. Anzi.
Secondo: sono
lettere di giovinezza, non tanto anagraficamente, quanto psicologicamente, di
chi fa vivere la giovinezza. Ed è
appunto la giovinezza che queste lettere suggeriscono nella loro candida e
audace, solitaria e angosciosa, disarmante e sognante e utopica vitalità.
Ad una lettura
superficiale, infatti, possono sembrare un banale sfogo adolescenziale.
C’è al contrario un
ininterrotto flusso: frammentario, sconnesso, contraddittorio, che si fa sovente
racconto visivo, riflessione amara e pungente, critica e autocritica .
C’è l’intellettuale
sottile quando sul trionfo del Bell’Eusebio
scrive:
“Non si deve imparare a scrivere ma a vedere.
Scrivere è una conseguenza. Lui invece prende un oggetto e cerca di abbellirlo.
Le parole diventano strati di pittura. Anziché liberare l’essenza, lui aggiunge
ornamenti arbitrari”
O ancora quando
parla della differenza tra Pirandello e Ibsen.
Ibsen, scrive “ha cercato di fornirci un nutrimento e non
un nuovo gioco della tombole” Pirandello “che è forse un grande uomo di teatro, ma che è stato creato e inviato
sulla terra per distrarre la buona società, per permetterle di giocare con la metafisica come giocava già
con la politica, le idee generali e di drammi dell’adulterio”. Condivisibile o meno, lo motiva successivamente, è comunque questo un giudizio interessante e
ricorda ciò che scrisse Gramsci, quando considerava l’importanza di Pirandello
più sul piano della sprovincializzazione della società che della creazione
artistica.
C’è lo sguardo su
se stesso, quando, dopo una lunga tirata,
osserva, quasi sorpreso:
“Ho l’impressione di essere ridicolo. Mi
fermo”
E ancora più feroce
un’autocritica:
“Scrivo una lettera piano piano, per
risvegliare, senza crederci troppo. Forse scrivo a me stesso”.
Sono monologhi,
senza risposte, se non finte. Si percepisce, però, nello scrittore sempre la
presenza immaginativa di lei.
C’è amarezza e stanchezza fino
alla dissociazione e un briciolo di ironia come in questa splendida chiusa:
“Rinette, sono
ubriaco di sonno, muoio di sonno, cado dal sonno. Ogni frase che dico sfuma in
sonno e a lei non arriva che una faccia. E mi dispero di non ricondurre alla
superficie niente di ciò che credo di dirle. Non sono più sicuro di essere a
Casablanca. Non sono più sicuro della sua esistenza. Mi lasci andare a
coricarmi o mi addormento davanti a lei e non sarebbe educato.
Rinette non ne
posso più. Sono stato eroico a scriverle.
Ci sono infine pagine narrative esemplari. La più penetrante
è forse questa.
“Ho avuto la certezza di morire come mai
prima, neanche il giorno della caduta. Ridiscendevo di tre miglia quando ho
sentito un colpo – ho pensato a un’avaria – e l’aereo ha cominciato
progressivamente a non rispondere. Verso le due miglia avevo tutti i comandi
spinti al massimo, più nessuna latitudine. Ho giudicato l’avvitamento talmente
certo che con la stilo ho scritto sul quadrante in modo visibile “Avaria.
Cercare. Impossibile evitare caduta”.
Non volevo essere accusato di aver perduto la vita per imprudenza, l’idea mi
irritava. Ho guardato con una specie di stupore i campi sui quali stavo per
abbattermi. Era qualcosa di nuovo per me. Mi sentivo sbiancare, irrigidire per
la paura. Una paura senza fondo ma non ripugnante. Una co gnizione nuova, indefinibile.
Non si trattava di lesioni e ho potuto
tenere fino a terra. Ma non l’ho creduto per un solo secondo. Quando sono
saltato giù dall’aereo non ho detto niente. Ero sprezzante di tutto e pensavo
che nessuno mi avrebbe mai capito. Almeno nell’essenziale. In quale mondo ero
entrato con la frode. Un mondo dal quale non capita spesso di ritornare e
descriverlo. E poi l’impotenza delle parole, come raccontare quei campi, quel
sole calmo. Come dire “io ho capito i campi, il sole…”. Eppure è così. Per
qualche secondo ho sentito nella sua pienezza la calma sfolgorante di quella
giornata. Una giornata solidamente costruita come una casa nella quale mi
sentivo a mio agio, dove stavo bene e dalla quale stavo per essere espulso. Una
giornata con il suo sole mattutino, il suo cielo alto e questa terra dove si
tessevano tranquillamente dei solchi sottili. Che dolce mestiere”
Un flusso veloce di
fatti e di pensieri: il guasto dell’aereo, l’irritazione e la necessità di
lasciare un messaggio ‘non è stata imprudenza’, lo stupore della vita sotto di
lui, la paura della morte, indefinibile,
la vita e l’impossibilità di
raccontare questa giornata nel suo presente, come miracolo. In sintesi: la vita
che viene assaporata nella sua bellezza stupefacente dopo una velocissima quanto
profonda percezione della morte.
Il finale della
lettera è forse ancora più poetico: la
gratitudine verso gli spazzini e i vigili che incontra per strada, il desiderio
di essere capito da lei, la solitudine di questo pensiero, e inoltre più nulla: ne’ piacere, ne’ noia,
ne’ pensiero se non il desiderio di stendersi e leggere Nietzsche “il mio cuore dove si consuma la mia estate,
quest’estate corta, calda, malinconica e felice…” finendo con “Vorrei
che condividesse questa passione con me ma lei non condivide granché”, un
desiderio e la sua disillusione.
Antoine De
Saint-Exupéry. Lettere di giovinezza all’amica inventata. Lettres de
jeunesse à l’amie inventée. Traduzione
di Maria Cristina Marinelli. Il sole. Pag. 77.
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