16 dicembre 2021

"Hannah Arendt" di Luca Mori

 


 

 


di Carla Rosco

L’occasione per riflettere sul pensiero di Hannah Arendt mi è venuta da  un breve ma intenso scritto di Luca Mori (insegna Storia della filosofia a Pisa) pubblicato dal Corriere della Sera  nella collana “Grandi donne della Storia”. Mori racconta la dimensione privata e quella pubblica in modo chiaro e coinvolgente.

Per la Arendt, dopo lo shock della scoperta di Auschwitz, la cosa più urgente da capire è come sia possibile che un uomo possa comportarsi in modo così atroce verso un altro uomo.

“A partire dalla malattia del padre, Hannah dovette affrontare molti traumi, ma il vero trauma per lei fu il giorno in cui seppe di Auschwitz. Era il 1943. Nella celebre intervista a Gaus dice che lei e il marito all’inizio stentavano a crederci, perché sembrava impossibile arrivare a tanto, anche da parte dei nazisti”. Tornata in Germania nel 1949, nel 1950 pubblica un rapporto sulla situazione dopo il nazismo, nel quale sostiene che in meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale (Ritorno in Germania, Donzelli 1996).

L’urgenza più pressante per la Germania postbellica, secondo la Arendt, era quella di riabituarsi a pensare. Il conformismo e il consenso fondato sull’incapacità di giudicare possono diventare un problema molto grave, anche all’interno di forme di governo democratiche.


Quando volle andare a Gerusalemme per seguire il processo, Adolf Eichmann le apparve un uomo che “non ebbe più bisogno di pensare”, assorbito nel suo compito. Non dunque una diabolica perversità, ma una fondamentale stupidità, l’assenza di pensiero, una “spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male”.

Mi vien da pensare (fatta salva una grande stima) che forse Hannah Arendt pecchi di astrazione, dovuta alla sua formazione filosofica probabilmente. La possibilità di riflettere, di porsi domande, è piuttosto - secondo me - il frutto di una condizione sociale e/o psicologica determinata. Inoltre, nonostante gli uomini preferiscano considerarsi liberi, in genere si funziona in automatico, e secondo schemi di comportamento appresi fin dall’infanzia.

A proposito di infanzia, mi sembra utile ricordare la psicologa e saggista Alice Miller (1923 Polonia, 2010 Francia) che nel suo libro “La persecuzione del bambino: le radici della violenza” (Bollati Boringhieri) passa in rassegna i testi pedagogici degli ultimi due secoli: “a fin di bene” ad un bambino può essere fatta molta violenza, reprimendo la sua autonomia emotiva e mentale. La Miller la definisce Pedagogia nera. Il bambino così represso non saprà da adulto reagire alle ingiustizie sociali e potrà accettare le imposizioni dei regimi totalitari. Nel suo libro dedica un capitolo ad Adolf Hitler, alla sua terribile infanzia con un padre che lo picchiava e maltrattava (la madre non era in grado di difenderlo), che gli aveva impedito di seguire la vocazione per la pittura, un padre padrone violento. Secondo l’autrice, ci sono approfondite ricerche secondo cui non tutti quelli che ricevono violenza la agiscono poi, ma tutti quelli che fanno violenza, l’hanno ricevuta.

Dunque quale era “la struttura morale del mondo occidentale” che il nazismo, secondo la Arendt, avrebbe distrutto? Educazione autoritaria e aggressiva, guerre molte, patriarcato dominante con violenza di genere, violenza sugli animali (Tolstoj: “finché ci saranno macelli, ci saranno le guerre”), e altre simili cose.

Allora è di conforto ricordare che l’archeologa Marija Gimbutas (1921 Lituania, 1994 Stati Uniti) ci racconta di una civiltà della Vecchia Europa, dal 7500 al 3500 a.C. circa, pacifica e paritaria (moltissimi i reperti archeologici trovati). Forse il nostro paradiso perduto.

Anche molto utile non dimenticare la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza, redatta da studiosi di varie discipline e di varie Nazioni riuniti a Siviglia nel 1986: la stessa specie che ha inventato la guerra, e se ne deve assumere tutta la responsabilità, può inventare la pace, attraverso l’educazione alla pace appunto.

Luca Mori. Anna Arendt. Grandi donne della Storia. Corriere della sera.

 

 

1 commento:

Unknown ha detto...

Interessante la riflessione di Carla Rosco, chiara e sintetica.