di Silvia Chessa
Il libro "L'impero di mezzo", di Andrea Cotti, è meglio di un viaggio in Cina perché ti fa intuire tante cose di questo insolito paese, più prossimo a noi di quanto non appaia. La prima riguarda i tempi della vita in Cina. Il tempo viaggia su due binari: "o una velocità sbalorditiva o una lentezza fangosa e mortale".
Altra nota distintiva cinese, le peculiarità culinarie, gli odori che si percepiscono per strada e, per esempio, la passione per l'anatra (della quale viene cucinato proprio tutto!) della gente di Wenzhou.
Terza prerogativa cinese, i soprannomi. Dapprima sembra semplicemente buffa e bambinesca, per il lettore, quella usanza di chiamare le persone per soprannomi (Forte Li, Bellissima Li, Silenzioso Wu, Luminosa Wu..). Ma poi l'autore ti spiega che serve ad identificare le persone. Essendo la popolazione tanta ed i cognomi pochi (e ripetuti), servono i soprannomi per identificare.
Un connotato molto interessante del libro è la dialettica fra passato e presente, che si risolve, in ogni circostanza, col sopravvento della modernità. Il testo, sia per il contenuto che per la forma, vale perfettamente come uno spaccato dei tempi attuali, nonchè un probabile accenno al domani. Infatti non passa molto tempo da quando il vicequestore Wu è giunto in pieno centro, a Wenzhou, che gli si presenta una realtà dove tutto si paga tramite App, con cellulari e riconoscimenti facciali, niente contanti nè carte di credito. Il futuro, sappiamo, avrà questo volto.
Non solo, ma abbiamo subito l'avvertimento della modernità nel leggere, in Wu, il sentimento delle nuove generazioni di immigrati in un mondo (si spera) sempre più senza frontiere. Wu, infatti, è cinese ed italiano al contempo. Vive una frattura, una crepa, dalla quale però, alla fine, entrerà la luce, ovvero la volontà di salvarsi. E, mentre osa ed esplora intricatissime connessioni stato-mafia, il suo ancoraggio a terra lo riconduce ai suoi affetti più cari (Anna e Giacomo).
Tornando al primo stato d'animo di Wu, quello di essere a casa, al suo arrivo in Cina, ma al contempo sentirsi straniero, questo senso di "altrove" ha radici letterarie profonde ed echi prestigiosi. Da Milan Kundera a Bohumil Hrabal, per citarne solo due. In particolare Hrabal aveva posto Hanta, protagonista di "Una solitudine troppo rumorosa", nel vortice di un senso di estraneità ma anche circondato dai maggiori scrittori e libri famosi.
Come Hanta, anche Wu è circondato da tradizioni antiche, deve districarsi fra codici segreti, rituali e nessi complicati, e decidere cosa tenere e cosa scartare. E come Hanta doveva mandare al macero dei libri, anche Wu deve operare delle scelte e ritrovare un suo equilibrio, mentre si dibatte fra un senso di appartenenza e uno di estraneità.
Molto originale è anche la coralità che apre la narrazione. Il soggetto protagonista, a ben vedere, è un noi. Si sottolinea che Wu è insieme ai suoi nonni: un insolito plurale, pertanto, porta avanti l'azione per un bel tratto del libro. In genere il protagonista di un romanzo è uno, singolo: parla, agisce e pensa in prima persona. Wu non solo ha viaggiato coi nonni, ma rifiuta, almeno inizialmente, un incarico di lavoro che gli viene dal capitano dei carabinieri e dall'ambasciatore in persona, ricordando a se stesso di non essere arrivato in Cina per questo. Insomma parla come se fosse parte inscindibile di un nucleo che si muove insieme.
Il vecchio "io" dei romanzi tradizionali, a questo punto, potrebbe essere la metafora del Partito cinese: imperialista, accentratore, ottuso. Da rovesciare e scardinare, partendo da una riforma del linguaggio stesso. Laddove il "noi" diviene paradigma di un nuovo mito di democrazia e libertà. Affiora, dunque, fra le righe, come un tentativo di creare un una cellula-familiare allargata, che purifichi il Partito-protagonista dall'isolamento egocentrico e corrotto e che lo emancipi verso una modernità, più sana, integra e liberale, tramite l'artificio letterario di un individuo collettivo che dica "noi", deponendo il potere assolutistico dell'io.
E magari, così facendo, riesca anche a superare le due velocità della Cina inventandone una terza: la velocità media, non fulminea ed ansiogena, nè biblica e frustrante. Si intravede ed appassiona, in questo percorso, di Wu ma anche della scrittura che ce ne racconta le gesta, il paradigma di un passaggio epocale dall'ego storico del romanzo classico alla generosa, nobile frontiera del noi, e, in questo libro di Andrea Cotti, magari, il capostipite dei romanzi crime più innovativi e d'avanguardia.
"Essere moderno coincide con l’essere presente all’epoca e al mondo in cui ci è dato vivere, sentirsi criticamente impegnati, o meglio implicati, nei conflitti, contraddizioni, creazioni. Significa scegliere e schierarsi: senza cedimenti ma senza secessioni." Goffredo Fofi
Andrea Cotti. L'impero di mezzo. Rizzoli.
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