10 maggio 2022

“ El Niño del secolo” di Michele Giannini

 

      

di Gianni Quilici
             

        Immaginiamo che abbiate letto i due racconti e che possiamo dialogare insieme. Non so se sarete d’accordo, la mia prima impressione è questa: Michele Giannini è uno scrittore vero. Non vuole consolare, ne’ romanticizzare, non vuole spettacolarizzare, ne’ intrattenere, perché non può, ne’ vuole vendersi. Vuole comunicare, farsi capire certo, ma cercando la verità di ciò che racconta, penetrando nella profondità dei personaggi, di ciò che pensano, vedono, dicono, immaginano, oltre il visibile. Prendiamo il racconto lungo  El Niño del secolo, che dà il titolo al libro. Protagonista un adolescente, Marcello, intorno al quale ruota tutto quanto: persone e  paesaggi, culture e il Tempo, l’estate di El Niño

       Prendiamo l’inizio. Marcello si sveglia “al trillo isterico  della sveglia”, si sente “ il corpo floscio come quello di una marionetta” con “un senso di disagio e di irrequietezza, residuo di un brutto sogno”.  In questo inizio percepisco subito una qualità dell’autore che percorre ambedue i racconti: una scrittura limpida e accurata, che anche foneticamente dà il senso della situazione narrata, ed un utilizzo di figure retoriche illuminanti e inventive. Pensate a come siano efficaci la metafora nel “trillo isterico della sveglia”, oppure  la similitudine del “corpo floscio come una marionetta”, nel rappresentare visivamente e psicologicamente il risveglio brusco di Marcello.

        Di Marcello, naturalmente, non sappiamo ancora  niente. Lo scopriamo progressivamente in questa mezza giornata nella quale si sveglia, inforca la bici e va al lavoro nel distributore delle zio, eccezionalmente assente. Ecco che l’autore inserisce dentro questo suo itinere, con un montaggio sapiente, quasi cinematografico, pensieri, ricordi, desideri, non per aprire parentesi, per spiegare, ma dentro il flusso di quel momento, della narrazione stessa.  

        Ecco quindi che spuntano  coloro che più di altri lasciano intravedere le radici e il retroterra socio-culturale in cui  Marcello vive: la famiglia e la scuola . Innanzitutto la separazione dei genitori e la vita difficile che si intravede: la mamma scorbutica e di poche parole, che lavora, da precaria, in una ditta di pulizia, con il peso di dover fare i conti quotidianamente con le urgenze più materialistiche dell’esistenza;  il padre, che cerca la complicità del figlio, senza che essa possa scattare per l’inadeguatezza del suo ruolo paterno presente e passato. 

       Poi la scuola, il liceo, da cui il ragazzo è stato appena bocciato, di cui sente tutta l’estraneità, la noia. la solitudine e la differenza di classe  verso compagni di famiglie borghesi. Rimane soltanto, vivo ma mortificante, il bacio a stampo sulla bocca, durante il gioco della bottiglia, alla più bella della classe, in cui lei tuttavia si pulisce, con il dorso della mano le  labbra. Infine la figura dello zio, per certi versi, solare con il suo piccolo distributore, che ama di un amore sconfinato,e lo fa trapelare in ogni sua manifestazione: dai rituali del servizio alla competenza che dimostra verso le auto stesse, di cui riconosce  minimi dettagli, se qualcosa non va.

         Con questi personaggi soltanto immaginati dal ragazzo o raccontati dallo scrittore stesso si impastano coloro che il ragazzo incontra nella mattinata al distributore. Sono una galleria di ritratti scolpiti  nella immediatezza di dialoghi veloci, che rappresentano tipologie diverse per età e carattere, cultura e linguaggi, circoscritti tutti ad una visione del mondo chiusa, localistica. E così incontriamo l’uomo sessantenne saggio di una saggezza popolare, tuttavia paternalistica; la donna col bimbo, perentoria e aggressiva, che lo tratta come se lui non esistesse; il ragazzo sulla ventina con grappoli di riccioli neri sotto un cappellino dei Chicago Bulls,  con il linguaggio gergale giovanilista fine anni ’90, che lo esorta ad andarsene dal paese prima che sia troppo tardi, compatendolo tuttavia perché sta lì, in quell’inferno, con quel caldo atroce; ed infine l’ultimo incontro l’uomo insopportabilmente borioso e tronfio “non sai chi sono io” con la sua Mercedes da esibire insieme al portafoglio pieno di soldi da centomila lire, squallida figura di frustrato arricchito.

         Tutto lì, qualcuno potrebbe dire? No, c’è qualcosa di più profondo.  Marcello.  E’ il suo ritratto il focus potente del racconto. Per il rapporto con se stesso  e, attraverso questo, l’intreccio con il resto. Con tutto ciò che incontra, compresi la natura e il torrido caldo, la strada e il distributore con bar. Per una ragione.

         Michele Giannini, infatti, ha creato un personaggio di adolescente sospeso  tra le immaginazioni epiche dell’infanzia e le prime fragili lacerazioni dell’adolescenza, alla ricerca di un’identità e di una sicurezza ancora da conquistare. Ne viene fuori una personalità articolata e profonda e infine poetica.

        La sessualità come voyeurismo. Ed ecco quindi la folata di eccitazione nel ricordare i lembi dell’accappatoio dischiudersi capricciosamente sul petto della donna intravista su una terrazza.

         Le prime cotte amorose, ma anche un’inibizione verso di esse.  Ed ecco che nel sogno lui non riesce a muoversi per baciare la bionda più bella della classe.

        La ricerca dell’identità nei miti adolescenziali. Ed ecco quindi le fantasticherie tipiche della generazione che ha vissuto  a contatto con l’immaginario del western, non quello americano, ma il western all’italiana, il cinema di Sergio Leone, con il pistolero silenzioso, misterioso e invincibile.

        E come contraltare l’insicurezza nei confronti degli adulti. Ed ecco la mortificazione e la rabbia contro se stesso, quando di fronte a atteggiamenti burberi o imperativi degli adulti non riesce a controbattere, a farsi rispettare come vorrebbe.

       La ribellione di Marcello è, quindi, tutta interiore: la scuola la odia così tanto che tra dieci anni la immagina data in fiamme da bande di ragazzini; il lavoro alla pompa di benzina  non lo capisce,  ne’ si sente all’altezza, lo annoia, perché i tanti volti dei clienti che si trova a servire finiscono per diventare manichini, senza sguardo, senza anima, tanto da ridurlo ad un fantasma, invisibile. 

       Ed è una ribellione che esplode,  diventa esplicita, e almeno per un momento azione. In un finale imprevedibile e poetico. E’ l’attimo trascendentale, in cui Marcello va oltre la sua storia, oltre se stesso, quello che finora era stato. Disobbedisce ad una violenza psicologica e ideologica, ad una visione del mondo che detesta. Ma questa non nasce dal nulla. Marcello ha un desiderio di Altrove, di  Oltre rispetto a quel piccolo mondo, misero, violento e insensato in cui sta vivendo, che non lo sente, che non lo vede. Il desiderio di altrove scatta, in certi attimi, come per esempio guardando “un cielo asciutto e sgombro … e poco più in alto una riga di gesso  nel desiderio di essere lassù, a chissà quanti metri  dal suolo”. Tuttavia non ha l’esperienza e la consapevolezza di poter prefigurare il suo futuro se non  “ come una landa vergine, sconfinata, quanto gli scenari western che amava tanto”.

       Un finale imprevedibile, ma motivato. Realistico e metaforico. Una metafora, che va oltre la storia di Marcello, perché ha una dilatazione simbolica che ci riguarda tutti. Giannini rappresenta sottilmente la scena  nei minimi dettagli psico-fisici: dall’attimo in cui non ne può più di rimanere servile, subendo la violenza psicologica dell’uomo. La rivolta dapprima è elettrica, per divenire tanto lucida e per questo pacata quanto la reazione dell’uomo è furiosa e incontrollata. Marcello diventa come sdoppiato:  un cow boy che “oscilla le spalle come uno spavaldo pistolero, pollici infilati nelle tasche, lo sguardo altero”. E infatti, in un silenzio denso e irreale come di sogno, entra tra gli steli dorati del campo di granturco, con l’immaginazione che oltre di esso “si aprisse una distesa senza fine, nel quale galoppavano cacciatori, avventurieri, banditi, impavidi pistoleri”

         Molto calzante la conclusione nella sua secchezza e risonanza. Leggiamola insieme.

    “Senza esitazione, Marcello allungò le mani tra gli steli e si aprì un piccolo pertugio nel quale sprofondò 

       Mi ha fatto pensare alla chiusa fulminea di Tozzi nel romanzo Con gli occhi chiusi , ed anche al Leopardi del “e il naufragar m’è dolce in questo mare”, per quel verbo “sprofondò” come felicità nel suo annullarsi.

       Azzeccate le ultime parole scritte in corsivo “Era l’estate del 1998, l’estate del Niño” Una sottile chiusura, perché  quella estate caldissima del 1998 diventerà indimenticabile anche per Marcello: la fine di una fase esistenziale, l’inizio di un’altra. Forse una nuova vita.

Michele Giannini

 

“ El Niño del secolo”

 

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Postfazione di Gianni Quilici

 

pag. 96, £ 10,00 

 

 

 

 

 

 

 

 

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