06 maggio 2022

"La vita… è ricordarsi di un risveglio" di Sandro Penna

 

di Davide Pugnana

        Sandro Penna: un poeta che alcuni adorano forsennatamente mentre altri non leggeranno mai; che altri scopriranno tra qualche anno; o che, forse, non si legge nemmeno più, non so. Mi chiedo se oggi questo poeta del Novecento italiano abbia ancora un pubblico. E se lo ha, da chi è composto?

        Eppure, Penna ha fissato come pochi altri il senso della giovinezza in versi che scorrono come un brivido di disarmante lucidità. Il suo tono è un sibilo di vento atroce e bellissimo, simile a quello di un poeta giambico ed elegiaco precipitato in tempi moderni. Credo sia un bene non conoscere quei versi. Rimandarli a domani. Dicono che quando si vive non si scrive. O, piú semplicemente, si leggono i poeti quando si cerca un nome per ciò che si è vissuto.

        Che cosa succede in questa poesia di due strofe di endecasillabi? L'incipit è ambizioso. Si vuole sagomare qualcosa di enorme e inafferrabile: la vita. Non sappiamo cosa aspettarci da questa punta di verso spalancata su un precipizio. Il primo pensiero è che sia una sfida impavida per una breve poesia. "La vita… è ricordarsi di un risveglio», dice il primo verso, che prosegue, scavalcando agilmente il confine metrico del primo endecasillabo, con «triste in un treno all’alba…». Credo non sia mancato a nessuno l’esperienza di un viaggio in treno che si accende, alle prime ore dell’alba, quando la luce pallida dirada l’oscurità e il sonno, di un ricordo in apparenza senza nome e senza oggetto. Un ricordo di sensazioni, che prendono la via dell’infinito passato: «aver veduto / fuori la luce incerta», in cui le forme pallide delle cose prendono volume, vita, disegnano le distanze fra noi e il mondo; e quindi «aver sentito / nel corpo rotto la malinconia / vergine e aspra dell’aria pungente», dove l’accento è portato sul proprio “sé”, non in senso astratto, bensì fisico, senziente, così come suggerisce quel «corpo rotto» (possiamo immaginare la scomoda postura da terza classe), o si deduce dal contatto dell’aria pungente sulla pelle, che suscita una malinconia «vergine e aspra». 

       Eppure, suggerisce il poeta nella strofa successiva, riprendendo l’anafora dei verbi all’infinito: «Ma ricordarsi la liberazione / improvvisa è più dolce…». Di cosa si libera all’improvviso il viaggiatore sul treno? Il poeta, invece di rispondere, incalza, richiamando l’attenzione su un marinaio giovane che si è seduto vicino, e in particolare sulla sua divisa bianca e azzurra, che in un elementare gioco di rimandi, in un cozzo di coloro puri, libera lo sguardo sul paesaggio marino («un mare tutto fresco di colore») che il treno sta attraversando, in una sorta di contiguità metonimica.

       Qual è il soggetto di questa poesia? Ma è necessario che la poesia abbia un soggetto inteso in senso logico-argomentativo? Non può farne a meno, puntando, senza lenocini stilistici, alla rivelazione del quotidiano (quale può essere un semplice viaggio in treno)? Non sarà sfuggito a molti neanche il pudore con cui Penna, spiccando forse il volo da due versi del Jaufré Rudel di Carducci («Contessa, che è mai la vita? / È l’ombra di un sogno fuggente…»), sembra impattare, chi sa quanto involontariamente, il famoso osso di seppia montaliano «Spesso il male di vivere ho incontrato», in cui la rappresentazione del malessere esistenziale si emblematizza in immagini che mantengono appena un generico, ancorché drammatico, richiamo alla quotidianità, come citazioni di un repertorio che potrebbe continuare, ma di cui il poeta limita l’elenco esaltando energicamente l’exemplum. Fra l’accartocciarsi della foglia e il rivo strozzato che gorgoglia, per non dire del cavallo stramazzato, non trascorre quella quantità di serena, positiva disposizione emotiva al mondo che invece sentiamo nel risveglio di un ricordo che avviene in un treno in viaggio per chi sa dove: un risveglio alla vita e alla poesia.

         La ragione di questo effetto di lieve facilità sta, forse, nel fatto che l'infantilismo lirico di Penna rimane tra le più belle cifre letterarie del Novecento italiano, direi anzi che è quasi una marca. Marca che torna alla luce dopo esser rimasta, per molti inverni, un seme sotto la neve. In effetti, prima di Penna ce n'eravamo quasi dimenticati e dobbiamo falcare molte bracciate a ritroso per ritrovarne la scaturigine. Tra il petrarchismo di ritorno, corretto dal francesissimo Ungaretti, e il dantismo marino di Eusebio, ecco il comporre trapunto di allusività di Penna, senza segrete ambiguità, tutto traforato e traslucido, denso di filigrane semplici; quasi risolto in un (apparente, cioè voluto) ductus acquerellistico di visione delle cose, che non è deficienza di penetrazione, ma felicità naturale e visiva. 

      Per me, è sempre stata questa la radice dell'infatilismo sapiente di Penna, che un po' lo avvicina alla "felicità" stenografica di De Pisis e un po' alla semplificazione cubitale di Rosai. Non si può che essere d'accordo con Garboli quando scrive dell' "inchiostro fresco e naturale" di Penna: "Oltre alla pura visività, c'è in Penna, che è poeta dotato di una larvale pluralità di tecniche, anche un altro sguardo da cui gli oggetti si ritraggono, per cui le immagini non varcano mai la soglia dell'anonimo [...] quello speciale entusiasmo [...] che generalmente si riserva agli artisti che sembrano stare a rimorchio, e nello stesso tempo, in virtù di un dono nativo, sembrano confermare la validità di esperienza maggiori di loro. "

 Sandro Penna. Tutte le poesie. Garzanti.

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