15 luglio 2014

"II ritorno" di Fabrizio Puccinelli



di Luciano Luciani

C’è un elemento ricorrente che lega questi racconti, “ritrovati” a più di vent’anni dalla scomparsa dell’Autore, Fabrizio Puccinelli (1936 – 1992): ed è il sentimento di una irriducibile disarmonia tra i protagonisti delle narrazioni e lo scenario in cui essi sono inseriti. Un nebuloso senso di disagio, una impalpabile stanchezza, una sfuggente pena esistenziale percorrono tutte le pagine della raccolta a partire dal primo racconto Il ritorno che dà il titolo al libro.

In esso un protagonista anonimo narra, in prima persona, come proprio mentre reduce della guerra d’Albania stia per rimettere piede a casa sua, venga rastrellata dai tedeschi negli ultimi giorni dell’occupazione militare dall’area geografica compresa tra le pendici a oriente delle Apuane e la valle del Serchio. Poi, come sfuggito fortunosamente alle voglie di violenza e di rappresaglia di quei militari, riconosciuti con sollievo i luoghi familiari, venga accolto nel cortile di casa prima da una mamma, ormai completamente imbiancata, e poi dalla sposa e il figlio.

Sembrerebbe un testo di memorialistica partigiana rielaborato in chiave narrativa, una scrittura tardo-resistenziale che, nel 1965, data di pubblicazione del racconto sulla rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, conosceva ancora qualche fortuna letteraria e soprattutto cinematografica in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione. Un nostos narrato secondo un’epica dimessa, stanca, antieroica. Un racconto interessante, ma senza grandi novità: la letteratura resistenziale, infatti, dopo gli “eroici furori” dell’immediato dopoguerra, aveva già prodotto testi di impianto più riflessivo, più meditativo, più capaci di una comprensione più larga della storia recente, della guerra e delle sofferenze che essa aveva introdotto non solo nella società e nella storia, ma nell’animo umano. La sorpresa vera per il lettore giunge là dove tanta letteratura resistenziale terminava: la liberazione, la fine della guerra, il ritorno a casa, la faticosa ripresa della normalità… È proprio a questo punto che inizia la storia che Puccinelli intende davvero raccontare: la vicenda di una condizione di disagio, di disaccordo, di incapacità a riconoscersi nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Un dissenso ancor più doloroso perché avviene in una circostanza che dovrebbe essere di gioia, di festa, di esultanza… Così nel registro mantenuto sino a ora di una narrazione di segno realistico, l’Autore, introduce una torsione affabulatoria e il racconto assume un andamento favolistico. Trasfigurano i confini tra realtà e illusione e la valle liberata, fin a ora piena di sole, si popola progressivamente di ombre ingannevoli, di presenze che non corrispondono a dati reali, ma sono proiezioni delle speranze del protagonista. Fino alla improvvisa rivelazione di una condizione umana, personale e collettiva, di dolore, di desolazione, di squallore.

È questo senso di anomia, questa perdita di orientamento, di posizionamento storico-sociale-esistenziale, che ritroviamo anche negli altri racconti, espresse in modo più acuto nel secondo racconto, La raccolta, pubblicato in due puntate sempre sul “Mondo” nell’inverno del 1966. Qui la protagonista, Simona, in un tempo che assomiglia agli anni che vanno dalla ricostruzione a quelli che arrivano a lambire il boom economico e in luoghi che coincidono sempre con la valle del Serchio, per quanto si adoperi con dedizione per salvare i modi di una vita anteguerra, se non felice almeno serena, non riesce in questa sua dura impresa. Perché sembra essere intervenuta una “gelata”, un grande freddo degli animi, sotto la specie di un inarrestabile mutamento economico-sociale, dei costumi, che spopola le valli, vuota i paesi, allenta e inaridisce gli antichi legami di amicizia, solidarietà, appartenenza.

Puccinelli racconta gli anni in cui gli italiani pensarono di poter barattare le loro anime con l’aumento del prodotto interno lordo e del reddito pro capite: un processo inarrestabile che ci portò a sperperare un patrimonio morale fatto di tradizioni, credenze, valori, culture. E già allora nelle coscienze più sensibili, più avvertite, più acutamente attente a quello che si acquistava e a quello che si perdeva, si provava disorientamento, delusione, un sentimento lancinante di perdita.

Puccinelli è tra quanti riuscirono a intravvedere, prima e meglio, la catastrofe etica e culturale che l’affermazione delle magnifiche sorti e progressive della modernità e del consumismo stava preparando per tutti noi e ne fa raccontare lo spaesamento a Simona, che vede sfaldarsi la piccola comunità amicale nata attorno a sé e ai luoghi dell’infanzia e della giovinezza: Stefano, l’amico ex partigiano, sempre incerto tra restare e andarsene, sempre sul piede di una partenza ogni volta rimandata, muore in un incidente in moto; Rosalba, l’amica dei giorni spensierati dell’adolescenza, dopo un’effimera storia d’amore con Stefano, preferisce optare per la vita più facile e gratificante della Versilia. E a Simona e ai suoi fratelli non resta che aderire  all’indicazione/maledizione di Ungaretti, valida per tutti i Lucchesi, quelli di città e di campagna, di collina e montagna: “Qui la meta è partire”.

È, a mio modestissimo parere, La raccolta il racconto più bello, carico com’è di una percezione della modernità più subita che davvero desiderata, denso di malinconia, intriso di nostalgia per un passato a suo modo armonioso, ma destinato a un’irrimediabile estinzione.

Ai primi due racconti di impianto storico-realistico seguono pagine in cui i dati concreti (ambienti provinciali, paesani; piccole comunità sul limite tra tradizione e modernità) si intrecciano con elementi eccentrici e bizzarri. Merita di essere ricordato Fabulator qualis humanus dove un operatore della Grande Macchina che sovraintende all’equilibrio della società, ormai destinato al pensionamento, osserva e descrive, con qualche distante preoccupazione i segni di un progressivo incepparsi di quell’organismo sociale complessivo di cui cerca di comprendere senza riuscirci il senso ultimo. Un testo che si segnala anche per l’invenzione linguistica, contrappuntato com’è da espressioni in latino, l’indizio, nota il prefatore Franco Petroni del tentativo di Puccinelli “di ancorarsi a qualcosa di antico e quindi illusoriamente stabile” in un mondo sempre più incerto, fragile, privo di memoria.


Fabrizio Puccinelli, Il ritorno Sette racconti, a cura di Giovanni Armillotta, prefazione di Franco Petroni, collana Oggetti e Soggetti, ARACNE editrice, Roma 2014, pp. 150, Euro 14,00

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