di Luciano Luciani
C’è
un elemento ricorrente che lega questi racconti, “ritrovati” a più di vent’anni
dalla scomparsa dell’Autore, Fabrizio Puccinelli (1936 – 1992): ed è il
sentimento di una irriducibile disarmonia tra i protagonisti delle narrazioni e
lo scenario in cui essi sono inseriti. Un nebuloso senso di disagio, una
impalpabile stanchezza, una sfuggente pena esistenziale percorrono tutte le
pagine della raccolta a partire dal primo racconto Il ritorno che dà il
titolo al libro.
In
esso un protagonista anonimo narra, in prima persona, come proprio mentre
reduce della guerra d’Albania stia per rimettere piede a casa sua, venga
rastrellata dai tedeschi negli ultimi giorni dell’occupazione militare
dall’area geografica compresa tra le pendici a oriente delle Apuane e la valle
del Serchio. Poi, come sfuggito fortunosamente alle voglie di violenza e di
rappresaglia di quei militari, riconosciuti con sollievo i luoghi familiari,
venga accolto nel cortile di casa prima da una mamma, ormai completamente
imbiancata, e poi dalla sposa e il figlio.
Sembrerebbe
un testo di memorialistica partigiana rielaborato in chiave narrativa, una
scrittura tardo-resistenziale che, nel 1965, data di pubblicazione del racconto
sulla rivista “Il Mondo” di Mario Pannunzio, conosceva ancora qualche fortuna
letteraria e soprattutto cinematografica in occasione del ventesimo
anniversario della Liberazione. Un nostos
narrato secondo un’epica dimessa, stanca, antieroica. Un racconto interessante,
ma senza grandi novità: la letteratura resistenziale, infatti, dopo gli “eroici
furori” dell’immediato dopoguerra, aveva già prodotto testi di impianto più
riflessivo, più meditativo, più capaci di una comprensione più larga della
storia recente, della guerra e delle sofferenze che essa aveva introdotto non
solo nella società e nella storia, ma nell’animo umano. La sorpresa vera per il
lettore giunge là dove tanta letteratura resistenziale terminava: la
liberazione, la fine della guerra, il ritorno a casa, la faticosa ripresa della
normalità… È proprio a questo punto che inizia la storia che Puccinelli intende
davvero raccontare: la vicenda di una condizione di disagio, di disaccordo, di
incapacità a riconoscersi nel proprio tempo e nel proprio ambiente. Un dissenso
ancor più doloroso perché avviene in una circostanza che dovrebbe essere di
gioia, di festa, di esultanza… Così nel registro mantenuto sino a ora di una
narrazione di segno realistico, l’Autore, introduce una torsione affabulatoria
e il racconto assume un andamento favolistico. Trasfigurano i confini tra
realtà e illusione e la valle liberata, fin a ora piena di sole, si popola
progressivamente di ombre ingannevoli, di presenze che non corrispondono a dati
reali, ma sono proiezioni delle speranze del protagonista. Fino alla improvvisa
rivelazione di una condizione umana, personale e collettiva, di dolore, di
desolazione, di squallore.
È
questo senso di anomia, questa perdita di orientamento, di posizionamento
storico-sociale-esistenziale, che ritroviamo anche negli altri racconti,
espresse in modo più acuto nel secondo racconto, La raccolta, pubblicato in due puntate sempre sul “Mondo”
nell’inverno del 1966. Qui la protagonista, Simona, in un tempo che assomiglia
agli anni che vanno dalla ricostruzione a quelli che arrivano a lambire il boom
economico e in luoghi che coincidono sempre con la valle del Serchio, per
quanto si adoperi con dedizione per salvare i modi di una vita anteguerra, se
non felice almeno serena, non riesce in questa sua dura impresa. Perché sembra
essere intervenuta una “gelata”, un grande freddo degli animi, sotto la specie
di un inarrestabile mutamento economico-sociale, dei costumi, che spopola le
valli, vuota i paesi, allenta e inaridisce gli antichi legami di amicizia,
solidarietà, appartenenza.
Puccinelli
racconta gli anni in cui gli italiani pensarono di poter barattare le loro
anime con l’aumento del prodotto interno lordo e del reddito pro capite: un
processo inarrestabile che ci portò a sperperare un patrimonio morale fatto di
tradizioni, credenze, valori, culture. E già allora nelle coscienze più
sensibili, più avvertite, più acutamente attente a quello che si acquistava e a
quello che si perdeva, si provava disorientamento, delusione, un sentimento
lancinante di perdita.
Puccinelli
è tra quanti riuscirono a intravvedere, prima e meglio, la catastrofe etica e
culturale che l’affermazione delle magnifiche
sorti e progressive della modernità e del consumismo stava preparando per
tutti noi e ne fa raccontare lo spaesamento a Simona, che vede sfaldarsi la
piccola comunità amicale nata attorno a sé e ai luoghi dell’infanzia e della
giovinezza: Stefano, l’amico ex partigiano, sempre incerto tra restare e
andarsene, sempre sul piede di una partenza ogni volta rimandata, muore in un
incidente in moto; Rosalba, l’amica dei giorni spensierati dell’adolescenza,
dopo un’effimera storia d’amore con Stefano, preferisce optare per la vita più
facile e gratificante della Versilia. E a Simona e ai suoi fratelli non resta
che aderire all’indicazione/maledizione
di Ungaretti, valida per tutti i Lucchesi, quelli di città e di campagna, di
collina e montagna: “Qui la meta è partire”.
È,
a mio modestissimo parere, La raccolta
il racconto più bello, carico com’è di una percezione della modernità più
subita che davvero desiderata, denso di malinconia, intriso di nostalgia per un
passato a suo modo armonioso, ma destinato a un’irrimediabile estinzione.
Ai
primi due racconti di impianto storico-realistico seguono pagine in cui i dati
concreti (ambienti provinciali, paesani; piccole comunità sul limite tra
tradizione e modernità) si intrecciano con elementi eccentrici e bizzarri.
Merita di essere ricordato Fabulator
qualis humanus dove un operatore della Grande Macchina che sovraintende
all’equilibrio della società, ormai destinato al pensionamento, osserva e
descrive, con qualche distante preoccupazione i segni di
un progressivo incepparsi di quell’organismo sociale complessivo di cui cerca
di comprendere senza riuscirci il senso ultimo. Un testo che si segnala anche
per l’invenzione linguistica, contrappuntato com’è da espressioni in latino,
l’indizio, nota il prefatore Franco Petroni del tentativo di Puccinelli “di
ancorarsi a qualcosa di antico e quindi illusoriamente stabile” in un mondo
sempre più incerto, fragile, privo di memoria.
Fabrizio
Puccinelli, Il ritorno Sette racconti, a cura di Giovanni
Armillotta, prefazione di Franco Petroni, collana Oggetti e Soggetti, ARACNE
editrice, Roma 2014, pp. 150, Euro 14,00
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