Le origini del welfare
Da
Londra a Parigi, da Berlino a Milano per tutta la seconda metà dell’Ottocento
la letteratura e le arti figurative europee raccontano di un mondo degradato e
subalterno popolato di affamati e pellagrosi, malarici e sifilitici, tisici e
alcolizzati, e gli ambienti che li raccolgono: carceri, ospizi, ospedali,
manicomi, lupanari… Gli umili manzoniani, tutti caratterizzati da una loro
specifica dignitosa individualità, si sono trasformati in moltitudine,
indifferenziata, minacciosa, ingovernabile: i sentimenti di pena e comprensione
per le sofferenze del gregge proletario si mescolano con uno stato d’animo di
timore per l’irriducibile contraddizione sociale di cui esso è portatore. Negli
ambienti più retrivi del conservatorismo italiano tornerà spesso a farsi strada
l’idea della repressione e della stretta autoritaria come il modus operandi più adeguato per
contenere la pressione della questione sociale.
I
settori liberali della borghesia del nostro Paese appena riunificato, però,
quelli culturalmente e politicamente più impegnati nella costruzione di forme
di direzione egemonica della società (la scuola, innanzitutto, ma anche un
moderno sistema di assistenza) si indirizzeranno in maniera diversa, cercando,
con fatica e contraddizioni, di intraprendere la “via che ha già cominciato a
percorrere l’Inghilterra, quella cioè delle grandi riforme sociali. E nel dir
ciò, noi ripetiamo un giudizio, che è stato espresso dallo stesso Carlo Marx,
uno dei fondatori dell’internazionale quando disse che solo l’Inghilterra aveva
trovato la strada per salvarsi dal pericolo che minaccia tutta l’Europa” (P.
Villari).
Così,
all’indomani dell’unità territoriale italiana raggiunta nel 1861 e completata
con la proclamazione di Roma capitale nel 1870, nel favorevole clima culturale
sollecitato dal positivismo, numerose inchieste e indagini promosse da enti e
istituzioni pubbliche rivelarono all’opinione pubblica come i problemi
elementari dell’esistenza di larghe masse della Penisola fossero ben lontani
dall’essere risolti e le condizioni subumane in cui vivevano ancora tante aree
del nostro Paese: si moltiplicarono allora, le associazioni di beneficienza,
laiche o cattoliche, che, ex novo o
potenziando strutture già esistenti, promossero orfanotrofi, asili notturni per
i senzatetto, ospizi per vecchi, ricoveri per ragazze madri o per l’infanzia
sofferente, cucine economiche…
Il modello inglese e quello tedesco
Il
modello più seguito era quello che proveniva dall’Inghilterra dove, per porre
termine al caos determinato dall’azione non coordinata delle numerose
associazioni caritative, si era costituita nel 1869 la Society of Organising
Charitable relef and Repressing, più tardi trasformata in Charity Organisation
Society. Sul movimento filantropico italiano ai suoi esordi non mancava, però,
di esercitare un certo fascino anche l’esperienza tedesca che, negli anni del
cancellierato di Ottone di Bismarck, aveva introdotto un sistema di
assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi della povertà: le
assicurazioni contro le malattie, 1883; gli infortuni sul lavoro, 1884; la
vecchiaia, 1889: leggi precedute dalla premessa secondo la quale l’interesse
dello Stato per i bisognosi “è un postulato necessario di politica conservatrice,
allo scopo di far penetrare nelle classi senza fortuna, che sono le più
numerose e le meno istruite, la convinzione che lo Stato è una istituzione
benefica e indispensabile”. Tra le borghesia intellettuale tedesca,e in vasti
settori di quella europea, si diffonde l’idea di un socialismo paternalistico,
calato dall’alto, non rivoluzionario, alieno dalla lotta di classe, pacifico e
in grado di impedire l’affermazione del proletariato, prevenendo quelle che
erano annunciate come le sue necessarie conquiste.
Un’internazionale borghese e solidale
Obiettori
di coscienza, organizzatori di leghe operaie, missionari tra gli affamati, i
detenuti, le prostitute, alfabetizzatori di plebi rese opache da un’ignoranza
secolare, soccorritori di vittime delle calamità naturali o dei corpi in
uniforme stroncati dalle armi bianche o da fuoco costituiscono, nel corso del
secolo delle rivoluzioni nazionali e liberali e dell’acuirsi della questione
sociale, un’internazionale solidale e, per tanti versi, provvidenziale: magari
confusi i loro programmi, oscillanti tra slancio idealistico ottocentesco,
sincera pietà per condizioni di vita indegne di popoli civili e genuina
adesione alle lotte per i diritti, spesso però efficaci le loro pratiche
sociali e capaci di dare risposte concrete a bisogni diffusi e a urgenze
improcrastinabili. Alcuni nomi tra i molti che, agendo più o meno
consapevolmente nel solco della “religione positiva di Auguste Comte
(1798–1857), operarono nei fatti per sostituire l’umanità a Dio: l’inglese Florence
Nightingale, “la fanciulla con la lampada”, che riorganizzò i servizi
infermieristici dell’esercito inglese impegnato nella guerra di Crimea
(1854–1856) e che, sulla base di quella esperienza rimasta memorabile presso
l’opinione pubblica europea, modernizzò in seguito anche gli ospedali civili
della Gran Bretagna; lo svizzero ginevrino Henry Dunant, (1828–1910)
“l’avventuriero della carità”, che, dopo aver conosciuto de visu l’alba di orrore successiva alla battaglia di Solferino,
(1859) impegnò il resto della propria tormentata esistenza per la costituzione
di una Società internazionale di soccorso tra i combattenti di ogni esercito, la Croce Rossa, (1864);
il russo Nicolaj Ivanovic Pirogov (1810–1881), illustre figura di scienziato,
chirurgo, educatore e uomo pubblico; l’italiano Ernesto Teodoro Moneta
(1838–1918), prima garibaldino, poi direttore del quotidiano radicale e
progressista milanese “Il secolo” e quindi premio Nobel per la pace nel 1907;
la praghese, di origine aristocratica, Bertha von Suttner (1843–1914), la
“strega della pace” come era sprezzantemente definita dagli ambienti
nazionalisti e sciovinisti di tutta Europa, scrittrice, giornalista, segretaria
di Alfred Nobel ed ella stessa premio Nobel per la pace nel 1905. Senza
dimenticare il quotidiano, silenzioso impegno della Società degli Amici, i
Quaccheri che per primi in Europa presero coscienza delle tragiche condizioni
di vita dei poveri, vero e proprio “popolo dell’abisso” ridotto quasi a una
razza a sé: cacciati dalla terra, obbligata al lavoro nelle manifatture,
abbrutiti dalla fame e da ogni altra miseria materiale e morale.
Nel
nostro Paese, nella faticosa impresa di trasformare il nuovo organismo unitario
nella casa comune di tutti gli italiani, considerata come le coerente continuazione
delle battaglie per l’unità e l’indipendenza, ritroviamo non pochi uomini e
donne del Risorgimento: preoccupati alcuni che la guida e il governo della
società rimangano saldamente nelle mani della borghesia moderata, altri, in
genere con un passato mazziniano e di partecipazione al volontariato
garibaldino, impegnati nella ricerca di forme più elevate di giustizia sociale
e già disponibili alle suggestioni e ai programmi del proto socialismo
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