11 novembre 2014

"Il gregge proletario: la pena e la paura" di Luciano Luciani





Le origini del welfare

Da Londra a Parigi, da Berlino a Milano per tutta la seconda metà dell’Ottocento la letteratura e le arti figurative europee raccontano di un mondo degradato e subalterno popolato di affamati e pellagrosi, malarici e sifilitici, tisici e alcolizzati, e gli ambienti che li raccolgono: carceri, ospizi, ospedali, manicomi, lupanari… Gli umili manzoniani, tutti caratterizzati da una loro specifica dignitosa individualità, si sono trasformati in moltitudine, indifferenziata, minacciosa, ingovernabile: i sentimenti di pena e comprensione per le sofferenze del gregge proletario si mescolano con uno stato d’animo di timore per l’irriducibile contraddizione sociale di cui esso è portatore. Negli ambienti più retrivi del conservatorismo italiano tornerà spesso a farsi strada l’idea della repressione e della stretta autoritaria come il modus operandi più adeguato per contenere la pressione della questione sociale.

I settori liberali della borghesia del nostro Paese appena riunificato, però, quelli culturalmente e politicamente più impegnati nella costruzione di forme di direzione egemonica della società (la scuola, innanzitutto, ma anche un moderno sistema di assistenza) si indirizzeranno in maniera diversa, cercando, con fatica e contraddizioni, di intraprendere la “via che ha già cominciato a percorrere l’Inghilterra, quella cioè delle grandi riforme sociali. E nel dir ciò, noi ripetiamo un giudizio, che è stato espresso dallo stesso Carlo Marx, uno dei fondatori dell’internazionale quando disse che solo l’Inghilterra aveva trovato la strada per salvarsi dal pericolo che minaccia tutta l’Europa” (P. Villari).

Così, all’indomani dell’unità territoriale italiana raggiunta nel 1861 e completata con la proclamazione di Roma capitale nel 1870, nel favorevole clima culturale sollecitato dal positivismo, numerose inchieste e indagini promosse da enti e istituzioni pubbliche rivelarono all’opinione pubblica come i problemi elementari dell’esistenza di larghe masse della Penisola fossero ben lontani dall’essere risolti e le condizioni subumane in cui vivevano ancora tante aree del nostro Paese: si moltiplicarono allora, le associazioni di beneficienza, laiche o cattoliche, che, ex novo o potenziando strutture già esistenti, promossero orfanotrofi, asili notturni per i senzatetto, ospizi per vecchi, ricoveri per ragazze madri o per l’infanzia sofferente, cucine economiche…

Il modello inglese e quello tedesco

Il modello più seguito era quello che proveniva dall’Inghilterra dove, per porre termine al caos determinato dall’azione non coordinata delle numerose associazioni caritative, si era costituita nel 1869 la Society of Organising Charitable relef and Repressing, più tardi trasformata in Charity Organisation Society. Sul movimento filantropico italiano ai suoi esordi non mancava, però, di esercitare un certo fascino anche l’esperienza tedesca che, negli anni del cancellierato di Ottone di Bismarck, aveva introdotto un sistema di assicurazioni obbligatorie contro i maggiori rischi della povertà: le assicurazioni contro le malattie, 1883; gli infortuni sul lavoro, 1884; la vecchiaia, 1889: leggi precedute dalla premessa secondo la quale l’interesse dello Stato per i bisognosi “è un postulato necessario di politica conservatrice, allo scopo di far penetrare nelle classi senza fortuna, che sono le più numerose e le meno istruite, la convinzione che lo Stato è una istituzione benefica e indispensabile”. Tra le borghesia intellettuale tedesca,e in vasti settori di quella europea, si diffonde l’idea di un socialismo paternalistico, calato dall’alto, non rivoluzionario, alieno dalla lotta di classe, pacifico e in grado di impedire l’affermazione del proletariato, prevenendo quelle che erano annunciate come le sue necessarie conquiste.

Un’internazionale borghese e solidale

Obiettori di coscienza, organizzatori di leghe operaie, missionari tra gli affamati, i detenuti, le prostitute, alfabetizzatori di plebi rese opache da un’ignoranza secolare, soccorritori di vittime delle calamità naturali o dei corpi in uniforme stroncati dalle armi bianche o da fuoco costituiscono, nel corso del secolo delle rivoluzioni nazionali e liberali e dell’acuirsi della questione sociale, un’internazionale solidale e, per tanti versi, provvidenziale: magari confusi i loro programmi, oscillanti tra slancio idealistico ottocentesco, sincera pietà per condizioni di vita indegne di popoli civili e genuina adesione alle lotte per i diritti, spesso però efficaci le loro pratiche sociali e capaci di dare risposte concrete a bisogni diffusi e a urgenze improcrastinabili. Alcuni nomi tra i molti che, agendo più o meno consapevolmente nel solco della “religione positiva di Auguste Comte (1798–1857), operarono nei fatti per sostituire l’umanità a Dio: l’inglese Florence Nightingale, “la fanciulla con la lampada”, che riorganizzò i servizi infermieristici dell’esercito inglese impegnato nella guerra di Crimea (1854–1856) e che, sulla base di quella esperienza rimasta memorabile presso l’opinione pubblica europea, modernizzò in seguito anche gli ospedali civili della Gran Bretagna; lo svizzero ginevrino Henry Dunant, (1828–1910) “l’avventuriero della carità”, che, dopo aver conosciuto de visu l’alba di orrore successiva alla battaglia di Solferino, (1859) impegnò il resto della propria tormentata esistenza per la costituzione di una Società internazionale di soccorso tra i combattenti di ogni esercito, la Croce Rossa, (1864); il russo Nicolaj Ivanovic Pirogov (1810–1881), illustre figura di scienziato, chirurgo, educatore e uomo pubblico; l’italiano Ernesto Teodoro Moneta (1838–1918), prima garibaldino, poi direttore del quotidiano radicale e progressista milanese “Il secolo” e quindi premio Nobel per la pace nel 1907; la praghese, di origine aristocratica, Bertha von Suttner (1843–1914), la “strega della pace” come era sprezzantemente definita dagli ambienti nazionalisti e sciovinisti di tutta Europa, scrittrice, giornalista, segretaria di Alfred Nobel ed ella stessa premio Nobel per la pace nel 1905. Senza dimenticare il quotidiano, silenzioso impegno della Società degli Amici, i Quaccheri che per primi in Europa presero coscienza delle tragiche condizioni di vita dei poveri, vero e proprio “popolo dell’abisso” ridotto quasi a una razza a sé: cacciati dalla terra, obbligata al lavoro nelle manifatture, abbrutiti dalla fame e da ogni altra miseria materiale e morale.

Nel nostro Paese, nella faticosa impresa di trasformare il nuovo organismo unitario nella casa comune di tutti gli italiani, considerata come le coerente continuazione delle battaglie per l’unità e l’indipendenza, ritroviamo non pochi uomini e donne del Risorgimento: preoccupati alcuni che la guida e il governo della società rimangano saldamente nelle mani della borghesia moderata, altri, in genere con un passato mazziniano e di partecipazione al volontariato garibaldino, impegnati nella ricerca di forme più elevate di giustizia sociale e già disponibili alle suggestioni e ai programmi del proto socialismo


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