di Gianni Quilici
Per una fortunata
combinazione ho avuto la possibilità di assistere ad un evento teatrale di
primo ordine Minetti di Thomas Bernhard con Eros Pagni per la regia di Marco
Sciaccaluga.
L’evento ha due
nomi, forse tre.
Il primo è Thomas
Bernhard e la sua opera “Minetti”, personaggio reale, considerato da molti il
più grande attore di teatro tedesco del secondo dopoguerra, che, tuttavia, lo
scrittore austriaco ha trasfigurato a sua immagine e somiglianza, trasferendo
in lui quei caratteri disperatamente ossessivi, di cui è percorsa tutta la sua
opera.
Un’ossessione paranoica
che assume una forma circolare, tornando di continuo su se stessa. Questa
paranoia non è però fine a se stessa, perché da un lato allarga il personaggio
e lo approfondisce, ce ne fa comprendere le ragioni individuali, sociali ed
estetiche, senza però definirlo una volta per tutte; dall’altro questo
martellamento ossessivo, che mescola tragedia e ironia, diventa anche musica,
sia pure paranoica.
Il secondo dei
nomi è Eros Pagni, che da solo regge la scena per più di un’ora e mezzo,
impresa psico-fisica già considerevole, tanto più che a sorrisi complici o
cattivi alterna scoppi furibondi di ira e maledizioni senza appelli.
Di più, Eros Pagni
non recita, ma interpreta un personaggio difficilissimo, un attore-artista che
rivendica la sua arte contro tutto e tutti, contro il teatro e la letteratura
classica consolatoria, contro la società stupida e feroce e contro il pubblico
stesso.
E lo interpreta
con una modulazione della voce e del volto, intrisi di molteplici sfumature: la
nostalgia del ricordo, l’ironia intessuta di disprezzo, l’esaltazione di sé e
della sua grandezza fino all’esplosione di urli terribili di rabbia e di
dolore.
Eros Pagni ha il merito di evitare
l’istrionismo dell’attore che celebra se stesso, la sua bravura gigionesca, come
altri, di lui più famosi, hanno fatto e fanno; si fa invece personaggio, ne
comunica la sua dolorosa, intima verità. E’ l’attore che si nega in quanto
attore recitante nel momento stesso che nega il teatro in quanto teatro
celebrativo.
Ho immaginato
vedendolo un film che raccogliesse la pièce con la mobilità del suo linguaggio,
che avvicina o allontana, con il montaggio che dà un ritmo ulteriore. Ho
pensato ad uno dei numerosi film da
camera di Bergman o a un film tipo Le lacrime amare di Petra Von Kant di Fassbinder,
dove il teatro diventa cinema, nell’alternanza tra primi-primissimi piani e
campi medi-piani d’insieme.
Il terzo nome va
insieme alla regia di Marco Sciaccaluga, che ha colto lo spirito profondo dell’opera,
alla scenografia minimalista di
Catherine Rankl, alle musiche di Andrea Nicolini funzionali al dramma con
un interrogativo. La società dello
spettacolo con le maschere vuote e schiamazzanti, prive di parole e di senso,
che fanno da contrappunto alla tragedia di Minetti è povera cosa rispetto alla
grandezza del monologo. Ma qui, credo, entrano in gioco le risorse economiche,
insufficienti forse a creare uno
spettacolo degli occhi, sia pure artificialmente vuoto.
Nella notte di San Silvestro con maschere e
luci, musica e petardi il vecchio grande Minetti indugia nella hall di un
albergo di Ostenda, dopo 32 anni, mentre fuori infuria una tempesta di neve.
Attende un direttore di teatro che vuole riportarlo sulla scena nel ruolo da
lui celebrato fino all’identificazione di Re Lear. Nella lunga, inutile attesa
parla di sé e della propria arte, evoca frammenti della sua vita (reale o
immaginaria?), inveisce contro l’arte classica, il pubblico e la società tutta,
rivolgendosi al personale dell’hotel, a
una signora prima e a una ragazza dopo.
MINETTI
di Thomas Bernhard
versione italiana
Umberto Gandini
con Eros Pagni,
Federica Granata, Marco Avogadro, Nicolò Giacalone, Giovanni Annaloro, Mario
Cangiano, Marco De Gaudio, Roxana Doran, Daniela Duchi, Michele Maccaroni,
Daniele Madeddu, Sarah Paone, Francesco Russo, Emanuele Vito
scena e costumi
Catherine Rankl
musiche Andrea
Nicolini
luci Sandro Sussi
regia Marco
Sciaccaluga
13 ottobre - 1
novembre 2015
Teatro Duse.
Genova.
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