02 dicembre 2019

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani

                                                          Pagine da un libro d'improbabile pubblicazione
                                                          (prima puntata)
                           
                             

Pisa. L'ora del topo.

Arrivai a Pisa per la prima volta in una notte d'autunno di 47 anni fa. Mi ci condusse un treno improbabile: un localaccio in ritardo da Firenze, possibile destinazione Livorno, o magari Grosseto o forse anche La Spezia. Per me la Toscana, allora, era soprattutto Firenze e di lì ero convinto che si transitasse per andare da qualsiasi altra parte. All'atto della partenza da Roma l'idea di un collegamento diretto tra la Capitale e il capoluogo con la Torre pendente non mi aveva neppure sfiorato: così, complice anche una coincidenza sbagliata, allungai il viaggio di oltre due ore, mettendo piede, rintronato dal sonno, in una città appena uscita da un abbondante acquazzone notturno che aveva costellato di pozzanghere la piazza della Stazione e intasato più di un tombino. Mi accolse, dunque, una città acquitrino, mentre le nubi si diradavano, riapparivano le stelle e la luna faceva discretamente capoccella. 

Era l'ora del lupo, o meglio del topo: unico essere vivente visibile, infatti, un ratto di chiavica di stazza medio-grande, incerto se attraversare o meno il viale che mi/gli si apriva davanti e alle prese, presumo, coi problemi della tana allagata. Emerso dalle fogne, si proponeva come esclusivo plenipotenziario del locale Comitato per le accoglienze: appena al di là della strada ne intuivo la pelliccia umida e ruvida di peli spinosi, la lunga coda, un'aria vagamente seccata. La stessa mia mentre affrontavo il problema di attraversare quel piazzale impaludato senza inzupparmi scarpe e calzini evitando inoltre di incrociare troppo da presso l'abitatore della cloaca e di quella primissima alba.
 

Una breve corsetta appesantita dalla valigia piena di libri e del tipo omnia mea mecum porto e guadagnai i portici senza garbo della pisana Galleria Gramsci. Dieci, quindici, venti passi ancora con le scarpe mézze (termine che nel 1972 non conoscevo e che avrei imparato a usare negli anni a venire) e... "Nessun eroismo" mi ribadii. Allora, modesto ma decoroso, un po' malinconico, mi offrì ospitalità l'Hotel La Pace: per circa tre settimane - nomen/omen - la mia prima residenza nella nuova città.
 

Pisa l'avevo appena appena sfiorata e l'impressione non era stata granché. Ignoravo che quel posto così poco accogliente, per oltre sette anni sarebbe diventata casa mia, intensamente vissuta e altrettanto amata e detestata.

                                         Lavoro, non studio. Se Dio vuole, gli operai!
 

A Pisa non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva. Contrariamente a tanti miei quasi coetanei non arrivavo nella città toscana per frequentare i celebrati corsi di studio delle sue università. Un'onesta laurea in lettere moderne (il primo dei Luciani che si fosse mai addottorato!) l'avevo già conseguita l'anno precedente presso lo Studium Urbis: se mi ero mosso da Roma, dove ero nato e cresciuto e da cui raramente e sempre malvolentieri mi allontanavo, era per motivi di lavoro. Ero un insegnante. No, non un professore universitario, per carità. E neppure un docente di scuola secondaria di primo o secondo grado. E neanche un maestro elementare. No, io insegnavo nei Centri di Formazione Professionale, la misconosciuta figlia di un dio minore nel sistema di istruzione del Bel Paese. Ben più di oggi allora, quando le competenza in materia stavano faticosamente trasferendosi dal Ministero del Lavoro ai neonati Istituti regionali. Un settore già incoerente per via della pluralità dei soggetti che vi operavano - enti pubblici e privati; religiosi e sindacali; assistenziali e di pura speculazione - si trovava d'improvviso a dover ricontrattare tutto - sedi, strutture, finanziamenti, personale - non più con un solo interlocutore, ma con tanti quante erano allora le Regioni.
 

È in questa fase convulsa che l'Enaip (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale), per cui lavoravo presso il Cfp di Anzio Colonia (RM) - meccanici, saldatori, tornitori, disegnatori tecnici - in qualità di insegnante di cultura generale, accetta la mia domanda di trasferimento: nuova sede di lavoro, Pontedera, in provincia di Pisa e anche qui, vista la poderosa presenza della Piaggio, le stesse attività corsuali. Una promozione? A me, giovinotto, convinto, come molti del suo tempo, che, per immegliare il mondo, la classe operaia dovesse dirigere tutto, sembrava tale. In più da insegnante semplice ero stato promosso "coordinatore pedagogico", qualsiasi cosa volesse dire: di sicuro significava pochi soldi in più, nessun orario certo di lavoro e tante responsabilità extra, ma non m'importava. Quale migliore occasione di quella che mi veniva offerta per studiarli da vicino, conoscerli in carne, ossa e tuta blu, questi famosi operai sino a quel momento solo letti sulle pagine di Pratolini e Balestrini, portati sullo schermo da Gian Maria Volontè, cantati da Ivan Della Mea? Passavo dalla classe operaia dell'asse industriale Roma-Latina figlia dell'assistenzialismo della  Cassa per il Mezzogiorno, clientelare e che votava a destra, ai solidi e politicizzati operai nel cuore della rossa Toscana.

1 commento:

Unknown ha detto...

È gradevole, macchinoso in alcuni punti ma gradevole, e vorrei già poter conoscere la seconda puntata, è una storia che incuriosisce. Buona continuazione di narrazione.