09 febbraio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" (5) di Luciano Luciani


                                                                           quinta puntata di una memoria autobiografica
                                                   che non è piaciuta alle più – e anche alle meno - importanti
                                                case editrici italiane

Quell'appartamento disadorno.
Più vicini ai venti che ai trent'anni gli abitatori di quell'appartamento disadorno in via Carlo Del Prete, tra San Giusto e San Marco, zona Areoporto a Pisa; coetanea la larga corte dei loro amici e sodali. Ritengo sia quasi superfluo aggiungere che quel folto gruppo di giovinotti, vuoi per età, vuoi per innate doti di umana simpatia, esercitasse una formidabile forza attrattiva per un ampio stuolo di ragazze coeve: studentesse, laureande, laureate cum ac sine laude, impiegate, commesse, operaie... Belle e meno belle; simpatiche e anche no;  dai costumi in genere liberali ma non sempre; inibite e/o disinibite, talora inibite con l'uno e disinibite con l'altro. Tutte, comunque, ebbero il merito, non trascurabile, di aggiungere piacere a piacere: spesso connotarono di grazie e gentilezza convivialità piuttosto materiali, per non dire grevi; movimentarono le serate; complicarono la vita a non pochi e stesero a volte per caso, a volte per una connaturata abilità strategica, reti emotive che, nel tempo, avrebbero portato a relazioni amorose sfociate in convivenze e matrimoni più o meno lunghi, più o meno felici.
 

Farei torto a questi amici - e non della ventura - se omettessi i loro nomi: Francesco "Ciccio" Romeo, quello piccolino; Antonino "Nino" Zampaglione, l'omaccione gentile; Angelo Curatola, quello alto, uno degli uomini più belli in cui mi sia mai capitato di imbattermi e che sembrava incarnare nell'aspetto il significato profondo del luogo di  provenienza di tutti e tre: Bagaladi, in provincia di Reggio Calabria, ovvero "Baha' Allah" "La Bellezza che viene da Dio". L'onnipotente che, apparentemente così prodigo nei suoi confronti, aveva già messo in conto per lui un'esistenza breve e una fine tragica. Quarto coabitante di quella casa per studenti, Rino Pensato. Un po' appartato rispetto agli altri: per età, si avvicinava ai trent'anni; perché meridionale, ma dell'est, pugliese/ foggiano; in quanto già professionalmente e socialmente garantito da un impiego presso l'Archivio di Stato pisano. Tutte caratteristiche che ormai lo proiettavano, almeno ai nostri occhi, verso un'irreversibile dimensione adulta. Rino era "grande": non partecipava sempre alle nostre serate e dimostrava di amare poco il "cazzeggio" e la veglia.


Todos compañeros.
Tutti compagni, naturalmente. Chi berlingueriano di ferro, chi simpatizzante socialista (guardato dagli altri,  va ricordato per onestà, con una sensazione mista tra lo stupore, lo struggimento e la pena), chi di Lotta Continua... Attorno a quella tavola pisano/calabrese ho visto realizzarsi le forme più ardite di unità a sinistra, quale immaginavo - e immagino ancora - che dovesse essere la sinistra: accogliente verso tutti; solidale con chiunque; capace di sentire e condividere nel profondo del proprio essere tutte le ingiustizie del mondo e provare una pietas piena d'amore per le  vittime della disarmonia sociale: dai braccianti del sud agli operai della Fiat; dai vietnamiti ai campesinos, dai neri americani ai palestinesi. Era, la nostra, l'adesione a un'idea di socialismo ingenuo, prepolitico, sentimentale e non ideologico. Discutibile che contribuisse davvero a cambiare il mondo, a spostare di un ette i rapporti di potere tra le classi. 

Però, faceva stare meglio noi: ci rendeva partecipi di un progetto collettivo di emancipazione, riscatto, liberazione che ai nostri occhi candidi appariva largo come il mondo e inarrestabile come un uragano. Un moto di trasformazione della società così ampio, profondo, radicale quale la Storia mai aveva mai avuto modo di conoscere prima di quegli "anni formidabili". E noi intendevamo esserci; a tutti i costi. Senza pretendere ruoli di direzione: umili fantaccini della Rivoluzione Proletaria avremmo disciplinatamente obbedito ai leader "esperti  e rossi" che le Masse, e noi con esse, avrebbero democraticamente individuato come loro, nostre guide.
 

Nessuno di noi, seduto a quella tavola - ma vado a memoria e parlo di percezioni - aspirava a ruoli di direzione nel partito, nel sindacato, nei gruppi dalla tumultuose dinamiche interne che si agitavano alla sinistra del Partito comunista. Per il futuro ci prospettavamo, più modestamente, di servire la Rivoluzione dal posto che avremmo, forse, saputo conquistarci nella società: insegnante, avvocato, medico, ingegnere... Saremmo di sicuro riusciti a  cambiare dal profondo quelle professioni e quei ruoli, trasformandoli nell'ispirazione e negli obbiettivi. Per renderli utili non individualmente, ma socialmente e mettere abilità, competenze e conoscenze a disposizione di chi ne era privo. Le nostre ambizioni non erano politiche in senso "politicista", ma sociali in senso "socialista". Per il resto eravamo grati al Gran Disegno di una società più giusta perché ci offriva l'occasione di stare insieme, ci teneva uniti in maniera fraterna, impediva alla solitudine di immalinconirci, rattristandoci coi pensieri delle radici lontane e forse perdute per sempre, dell'affitto da pagare tutti i mesi a padroni di casa esosi e pisani, degli amori non contraccambiati e quindi infelici, di un futuro problematico e malsicuro, opaco e ancora indistinguibile nei suoi lineamenti di fondo.
 

Come mi riaffiora alla memoria l'Italia di allora? Ingiusta, ma carica di speranze; sofferente di mali antichi e recenti nei corpi e negli spiriti; giovane, ma governata da una gerontocrazia tutta declinata al maschile. Era proprio così? No, probabilmente no. Larghi si presentavano gli spazi di libertà politica, culturale, nei comportamenti privati e nei collettivi stili di vita. Certo, ogni conquista, anche la più modesta era pagata a caro prezzo, continuamente insidiata e messa in discussione, in alto come in basso, dai potenti e dalla gente comune: e questo avveniva nella famiglia, a scuola, al lavoro. Ricordo l'orgoglio di appartenere a un'imprecisata "meglio gioventù", ma, certo, di minoranza. Corposa, se si vuole, ma sempre minoritaria e, tra l'altro, povera di alleati perché arrogante nella sua persuasa convinzione di essere comnque dalla parte giusta. Continuava ad agitarmisi dentro lo slogan parigino del maggio '68: "Non liberatemi. Lo faccio da solo".

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