Se uno oggi mi chiede, a distanza di 32 anni da un mio viaggio in Palestina, durante la prima intifada, con una delegazione mista italiana, sotto la protezione dell’Onu, cosa mi rimane dentro di quel viaggio, non ho dubbi a rispondere: la puzza della miseria di Gaza, perché in televisione la miseria si vede ma non si sente e l’odio dentro gli sguardi di madri, giovani, bambini e vecchi nei confronti dei loro oppressori e di questi contro i loro oppressi. Mai visto prima, mai visto nemmeno oggi in questo paese rancoroso e pieno di odio. Non c’è paragone, quello lo vedi negli occhi infuocati, lo senti, lo avverti ovunque, in ogni contesto, si materializza così denso e soffocante che ti avvolge e ti opprime.
La Palestina di 30 anni fa, durante la prima intifada, era un altro paese, laico, anche se i livelli di corruzione erano già elevati, le donne ricoprivano ruoli importanti dirigenziali, l’integralismo islamico iniziava allora a muovere i primi passi, era minoritario anche a Gaza. Conservo un piacevole ricordo della libertà di azione e di movimento che godevano le donne palestinesi rispetto alle donne arabe in altri paesi, che mi stupì piacevolmente, mi sorprese gli alti livelli d’istruzione di quei giovani che si formavano nelle università di mezzo mondo finanziati dall’OLP, il clima di confronto, di unità e reciproco rispetto tra culture spesso molto diverse tra loro. Ho avuto il privilegio di incontrare dirigenti politici palestinesi di primo piano, di tutti gli orientamenti, spesso anche insieme; i toni del confronto erano sempre estremamente rispettosi e civili.
A Gaza ci portarono ad incontrare anche il gruppo dirigente di Hamas, un gruppo di giovanissimi determinati quanto affetti da un fanatismo preoccupante e pericoloso soprattutto per i palestinesi. Quello che mi preoccupò, più di ogni altra cosa, fu il loro integralismo religioso, una mina vagante per un popolo in cui convivevano molte confessioni religiose diverse attorno ai simboli sacri delle tre grandi religioni monoteiste. Il simbolo, di quel gruppo di Hamas, che aveva ottenuto già il 3,5% di voti nelle ultime elezioni a Gaza, era di per sé un programma: un’aquila con gli artigli infilati dentro lo Stato di Israele con tanto di sangue che sgorgava dappertutto. Usci da quell’incontro molto turbato, mi rivolsi ad un mio compagno di viaggio e gli dissi: questi qui tra qualche anno, in assenza di una qualche soluzione politica, conquisteranno la maggioranza e conquisteranno il controllo di Gaza.
Pochi anni dopo, questa mia previsione, purtroppo si concretizzò, hanno conquistato non solo Gaza. Quei giovani, iniziavano a dare rappresentanza a un popolo sempre più frustrato, umiliato e disperato, dalla mancanza di una soluzione a quella loro insopportabile condizione di vita subumana e dopo mezzo secolo (1989) di sopravvivenza nei campi profughi, stava per esplodere in una rabbia disperante e, loro erano lì, pronti a raccoglierla, per trasformarla in un programma politico che avrebbe portato la causa palestinese, che allora godeva di simpatie e solidarietà in tutto il mondo, dentro un vicolo cieco, senza alcuna via d’uscita.
Un piccolo aneddoto molto significativo: una sera, un impiegato palestinese del consolato italiano, ci portò a fare un giro su di una collina nella periferia di Gerusalemme, a un certo punto si fermò, scese senza dire niente, noi stupiti ci guardammo negli occhi, vedemmo l’uomo guardare verso il basso una villetta ben curata ed elegante, poi si sedette su di una grossa pietra e scoppiò in un pianto dirotto: vedete, ci disse rivolto a noi, quella era la mia casa dove sono nato, avevo 10 anni, una sera nel 1948 arrivarono i soldati israeliani, ci diedero 10 minuti di tempo per raccogliere i nostri indumenti più intimi e ci buttarono fuori, da allora non ho potuto più mettere piede nella mia casa che fu la casa anche di mio padre e di mio nonno.
Scese il gelo tra noi, in quell’imbarazzato silenzio, sentivamo le grida gioiose di un bambino che giocava con il pallone, le voci serene di una famiglia in un bel pomeriggio freddo ma di sole. L’impiegato palestinese aveva più di 60 anni, giù in quella villetta, c’era un uomo con il suo bambino più giovane del palestinese di una quindicina di anni, quella casa, anche per quell’uomo ebreo, era la casa dov’era nato e che magari nessuno gli ha mai detto che l’avevano strappata con le armi ad una famiglia palestinese.
Oggi quell’uomo ebreo avrà più di 70 anni e lui, suo figlio e suo nipote, sono tutti nati in quella casa, pronti a difenderla con le unghie e con i denti. Il palestinese, sicuramente è morto, ma quel doloroso pellegrinaggio hanno continuato a farlo i suoi figli e i suoi nipoti cresciuti in condizioni disumane nei campi profughi, ed ogni pellegrinaggio fatto nel loro luogo del dolore si è trasformato in un potente moltiplicatore di odio.
Tutto questo per dire che, secondo me, parlare di pacificazione dopo 73 anni, di guerra e di occupazione, di realizzare il sogno di due stati per due popoli o di uno stato laico e democratico per due popoli, è un’utopia. Io penso che i due popoli non ce la potranno mai fare da soli, continueranno a scannarsi e a odiarsi reciprocamente consumando in questo modo le vite delle future generazioni in continuità con quanto vissuto e sofferto dalle generazioni precedenti da quel lontano 1948.
La Comunità internazionale dovrebbe intervenire con determinazione, mettere un freno alla prepotenza e arroganza di Israele costringendolo ad applicare le tante risoluzioni dell’ONU che, unico paese al mondo, si può permettere di disattendere senza alcuna conseguenza e, contestualmente, chiudere tutti i ponti con tutti gli estremismi e integralismi fanatici, sui due fronti, che si alimentano a vicenda e che impediscono ogni possibilità e speranza di una soluzione politica. Solo in questo mondo, possiamo ridare fiato e forza a quelle minoranze dei due popoli che con un coraggio da leoni ancora oggi, nonostante tutto, tengono accesa la fiamma della convivenza e della coesistenza civile.
Le foto sono state realizzate da Eugenio Baronti nel viaggio di cui parla.
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