22 febbraio 2024

"L'alveare" di Emilia Giorgetti

 


di Elisa Bertoni

Il romanzo “L'alveare” di Emilia Giorgetti ha il grande merito di essere un libro coraggioso, non nel senso comune che attribuiamo al termine, spesso riferito a chi ha compiuto gesta eroiche di fronte a rischi minacciosi. 

    Il pericolo che sfida questo libro è quello di mettere al centro la gentilezza ed i buoni sentimenti, oggi spesso maltrattati quasi fossero puerili sfoghi di anime semplici, incapaci di rapportarsi, anche machiavellicamente, con la crudezza della realtà che appare edulcorata dalle lenti di un colpevole ed ingenuo buonismo. 

      Emilia Giorgetti non teme di parlare attraverso la voce narrante di una bambina che vive la sua infanzia nel secondo dopoguerra: Marta, o affettuosamente Martina, si affaccia a piccoli passi alla vita, scoprendo attraverso l'esperienza il manzoniano guazzabuglio presente nel cuore degli uomini, siano essi bambini siano essi adulti.

       Lo schema stesso del libro rifugge da forzose architetture razionalistiche e per questo scontate, lasciandosi guidare dal tempo interno di matrice bergsoniana che ogni stagione offre a Martina. Alla tradizionale quadripartizione “Inverno, Primavera, Estate, Autunno” si aggiungono altre due sezioni, “Ancora estate” e “Verso l'autunno”, quasi fossero due nuove stagioni che si affiancano alle altre sulla base della percezione del tempo di una bambina che riconosce proprio nei mesi di massima luce e di assenza di impegni routinari cadenzati -primi tra tutti la scuola- la dilatazione e l'esplosione degli spazi di libertà, vissuti per lo più all'aria aperta in una dinamica relazionale ricca e variegata, fatta di scoperte, delusioni, di avventure, di creatività, di contatto con la natura nei suoi imperscrutabili cieli, negli animali, nelle piante. 

      Il mondo descritto, rapportato a quello attuale caratterizzato dall'individualismo crescente delle giovani generazioni, appare come uno spaccato di società perduta; il romanzo diventa pertanto una testimonianza urgente di come sia necessario recuperare relazioni autentiche, non più prevalentemente assorbite e mediate da apparecchi tecnologici e chiuse entro pareti illuminate a led, che diventano oggi subdole prigioni di bambini.

      Non è un caso che il titolo sia “L'alveare”: un'operosità di piccoli insetti in continuo movimento che lavorano insieme per la fecondità del gruppo attorno ad un'ape regina. L'alveare diventa simbolo efficace di una vita che non rifugge da fatiche e che trova il miele -quasi una trasposizione figurata del senso della vita- proprio nell'operosità, nello scambio e nella solidarietà umana. La grande casa delle zie, con le tante cellette delle stanze in cui si possono ospitare tante famiglie e condividere spazi e letti, è metafora di accoglienza, di apertura, di collaborazione.

      In questo romanzo, il punto di contatto tra mondo degli adulti e quello dei bambini si coglie proprio nell'approdo al simbolico, immaginario ponte tra l'ardita fantasia dei fanciulli e la ricerca di un significato che dia ragione all'esperienza secondo un procedimento di razionalizzazione tipico degli adulti. 

      Esempio significativo può essere il regalo che viene donato alla compagnia dei bambini dalla signora Ester: la Menorah, la lampada ebraica a sette bracci. Lungi dal costituire un mero oggetto di valore religioso, la protagonista cerca di trovarne il messaggio che renda quel dono significativo: esso rappresenta per Marta, così come l'alveare per l'autrice, l'importanza della collaborazione; i sei bambini insieme alla signora Ester formano una unità capace di illuminare la vita attraverso i pensieri e le azioni solidali di tutti. Marta inizia dunque a dare il suo significato a ciò con cui entra in contatto, scrutando anche le pieghe oscure che la spaventano ma che sono allo stesso tempo anch'esse un mezzo privilegiato per crescere e prendere consapevolezza. 

      Il difficile passaggio da un'infanzia percorsa da ombre alla percezione che il mondo degli adulti non è poi così inaccessibile ed impenetrabile è infine rappresentato dall'acquisizione di coraggio da parte della protagonista che per mano alla sorellina Innocenza può affermare nell'Epilogo: “Neppure io ho più paura della scala buia”. Ciò che vince il buio è il coraggio del pensiero che, come quello dell'autrice, non si nutre di freddo intellettualismo, ma che può vivere di emozioni ed è capace anche di una “riflessione interrotta” in nome di una socialità piena e vitale.

Emilia Giorgetti. L'alveare. Giovane Holden Edizioni. 

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