24 dicembre 2013

"Tokyo: scuola elementare" di David Alan Harvey



di Davide Pugnana

Credo che da qui - dalla posizione cioè di secondi osservatori di ciò che è stato osservato e fissato per sempre dal fotografo - il primo atto di fede sia la gratitudine. 

Ogni scatto fotografico, anche il più accidentale e 'cronachistico' frammento senza composizione (gli album di famiglia; una gita fuori porta; una linguaggia o un dito medio a dire l'adolescenza tribolata; o un bacio sopra le mura di Lucca, vent'anni fa o giù di lì) non ha solo l'effetto di stimolare i relè della memoria attraverso la fonte visiva; né ha solo il potere magico di restituirci il viluppo "morto" di sensazioni o i "vangeli" del quotidiano, come volevano Barthes e Susan Sontag. C'è una verità più semplice che ci fa amare la fotografia al pari di un talismano. La gratitudine verso il fotografo prima che toccare qualità e valori estetici, prima che celebrare l'attimo irripetibile della "scelta", proviene dalla gioia della percezione visiva che lo scatto ci inchioda su un brano di realtà del quale ci eravamo dimenticati; o la cui bellezza così non l'avevamo mai vista. 

Se dovessi scegliere un esempio d'en bas per spiegare questo tipo di rivelazione dello sguardo direi che il fotografo ripete il gesto della lavandaia: una lavandaia che prende un fazzoletto di realtà opaca e lo immerge in un liquido cristallino capace di detergerlo e restituircelo in una luce pulita e abbacinante. Il miracolo avviene quando si "tira su" l'immagine di realtà fissata e ci si accorge che dall'acqua affiora qualcos'altro. Ciò che prima era appannato e fuggitivo, ora è perfettamente leggibile e contemplabile. 

La fotografia ci mette nella condizione di vedere meglio brani di realtà verso i quali, per assuefazione, non prestiamo abbastanza attenzione. Che effetto fa il pic nic sul fiume di Cartier Bresson? O i lampioni languidi di Brassai? O quelle casupole dirute di Mc Curry, nelle cui cavità tanti globi di luce ci raccontano la miseria e la poesia del silenzio notturno? Che cosa leggiamo nelle pieghe delle mutandine delle donne di Helmut Newton?

 Ogni giorno, vediamo tavole apparecchiate, lampioni, servizi dei telegiornali da Gerusalemme, nudi femminili, eppure non li guardiamo mai davvero. Scorrono per un momento nei nostri occhi, carichi delle nebbie della pigra abitudine visiva; ma non lasciano traccia.

 Con la fotografia è tutto un altro dominio. Per il solo fatto di essere saldamente chiusa tra i quattro lati della cornice, rende tutto diverso. Ciò che nella vita reale sarebbe una famiglia in riva al lago può ora trasformarsi in una composizione di corpi nello spazio tra cose la cui essenza materica ci è improvvisamente nota (la grana di un cesto, la levigatezza della carta, la trama della tovaglia ecc). 


Chi vive nei grandi quartieri, con i palazzi altissimi di cemento degli anni Sessanta, sa bene la luce che filtra a geometrie tubolari ripetendo sul muro l'andamento delle grate e il panorama chiuso dalla finestra del vicino; quasi ogni giorno può affacciarsi e seguire le evoluzioni di un bambino che gioca a palla contro il muro. Lo guardiamo per un po' poi lasciamo che quello spaccato venga assorbito nel magma della cronaca quotidiana. La nostra stessa memoria scarta questa sequenza, o la mescola a stralci di ore anonime della nostra infanzia. 

Ma l'immagine di questo bambino con la tuta nera e rossa ha quella perfezione assoluta che ce lo racconta per la prima volta, con una segreta geometria della composizione formale che solo il fotografo può "ritagliare" oltre la casualità e la contingenza. Quel bambino non poteva stare che lì, proprio lì, tra quella striscia nera di mattonelle e il filo d'acqua dissecata sul muro di calce e miele; lì, eternamente sospeso come un arco teso da cui l'ombra sembra spiccar via violentemente per vivere la sua favola di Peter Pan. Questo bambino che non è più bambino, ma un corpo che ci consola come unica fantasia curvilinea in tanto rigore orizzontale e verticale. Proviamo a spostarlo mentalmente. Ci dispiacerebbe se fosse sotto la grata o perfettamente centrato. David Alan Harvey deve essere rimasto sempre in agguato con la macchina fotografica pronta a cogliere l'istante in cui la via sarebbe entrata in scena e avrebbe completato l'immagine nel modo giusto. Sicuramente deve amare la sezione aurea se l'ha composta con tanta perfezione di pesi; e la luce zenitale di Piero della Francesca; e gli accordi cromatici di Mondrian,con i rossi, i neri, i bianchi; e la levità dei cantafavole. E non sarebbe l'artista che è, se non fosse sensibile anche al mistero della luce, oltre che alla poesia della vita. 

Noi, dalla sponda di osservatori di secondo grado, dannati a contemplare il già visto e rinominato dagli occhi adamitici del fotografo, ci fermiamo e rivivere lo stupore di una porzione lavata di realtà; ne scopriamo le leggi e la grammatica, come fossimo sempre al primo anno della scuola dello sguardo.

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