11 dicembre 2013

"Lettera ai giornali" di Angela G. Palermo



Viviamo in un universo mediatico, in cui la sovrabbondanza di messaggi consuma quasi ogni comunicazione nell’arco di qualche ora, giorno, settimana.
Questo riguarda anche quei prodotti che hanno una distribuzione nazionale, siano essi libri o film. Molto più precari sono gli articoli di giornali, quotidiani e riviste, che solo in pochissimi casi saranno raccolti in libri.
Nessuna possibilità di vita hanno invece le lettere ai giornali, che possono durare quel giorno per poi perire, anche quando hanno uno spessore intellettuale e morale, che va oltre la situazione specifica.
Questo vale per la lettera di Angela G. Palermo, che merita di essere letta e inserita in queste recensioni libere.

C’è un fatto, un incidente stradale, un incidente causato dall’imprudenza altrui, un incidente che improvvisamente cambia la vita di una giovane donna, facendo da spartiacque tra un prima e un dopo per le conseguenze fisiche ed economiche, psicologiche e professionali.
Da qui questa lettera spedita ai giornali, in cui Angela analizza i suoi stati d’animo ( rabbia e senso di ingiustizia, sconforto e disperazione), riflette sulle cause oggettive dell’incidente e su che cosa il governo nazionale e l’Europa potrebbero fare e non è stato fatto.  
C’è nella lettera la limpidezza nobile della ragione: nel dolore  e nella stessa rabbia; c’è perfino la compassione, che diviene quasi  senso di colpa, nei confronti di chi, “invece, giace morto su chissà quale lembo di asfalto”. (Gianni Quilici)


LETTERA APERTA AI GIORNALI
di  Angela G. Palermo

L’8 settembre 2012 sono stata investita da un’automobile che andava a velocità sostenuta. Ero in sella alla mia bicicletta e ricordo solo un tonfo sordo, poi il buio e il risveglio con dolori indescrivibili.
La giornata si preannunciava uguale a tante altre piene di impegni. Invece un giorno qualunque, in un posto qualunque, la tua vita cambia per sempre. E quel giorno così banale, si trasforma nello spartiacque tra la vita di prima e  quella di dopo. Dopo l’ “incidente”.

I miei sentimenti prevalenti in questa situazione sono assai diversi e tra loro contraddittori. Ad un senso iniziale di rabbia si è andato accostando un sentimento di ingiustizia. Poi i giorni passavano e le sofferenze, invece di diminuire, aumentavano, così da trasformare la rabbia in sconforto e il senso di ingiustizia in disperazione.

Ingiustizia perché? Perché la verità è che sulle strade la prudenza non salva dall’imprudenza altrui. Perché per moda, in tante trasmissioni televisive, sui giornali, si predica il dovere di utilizzare mezzi alternativi all’automobile per “vivere meglio”, “per vivere bio”, per “tenersi in forma”. E così, noi ci si sente quasi dei paladini che al posto delle armi utilizzano sempre la bicicletta, infallibile arma verde in difesa del nostro pianeta che non sta morendo ma che stiamo assassinando.
Le nostre strade sono sempre più simili a  campi di battaglia dove troppi “soldati verdi” muoiono sul campo, uccisi da automobili simili a mine vaganti.

I governi nazionali e l’Europa dove sono? Perché non intervengono a sostegno di leggi che promuovano una vera rivoluzione verde? Si dovrebbe, per esempio, investire di più in piste ciclabili, dotare le strade di una segnaletica stradale più specifica e, non da ultimo, appoggiare la proposta di alcune associazioni di introdurre il reato di omicidio stradale e costringere le assicurazioni a pagare somme più importanti alle vittime o alle loro famiglie.

Nessuna somma può ripagare delle sofferenze fisiche e psicologiche che un “incidente” come il mio può provocare, ma questa indifferenza è insopportabile. Io sono stata “fortunata” perché sono viva, ma per la maggior parte delle persone che vengono travolte con quella violenza la vita si conclude sull’asfalto.

La signora che mi ha investita non solo non ha chiamato i soccorsi, ma non mi ha mai contattata per chiedermi come stessi. Giacevo in fin di vita sull’asfalto e mi ha salvata un ciclista medico che passava per caso di là. Gli atti inqualificabili come quello della signora che ha investito me, devono diventare aggravanti imperdonabili in tribunale. E invece, mentre io devo imbottirmi di morfina per alleviare dolori insopportabili, la signora è libera.
Libera di dormire senza dolori, libera di abbracciare suo marito, libera di alzarsi, libera di mangiare, libera di uscire, libera di lavarsi, libera di leggere, di scrivere senza sentire dolore, libera di respirare senza che il respiro stesso tolga il fiato.

Due giorni dopo l’ “incidente” mi hanno contattato vari licei per proposte di supplenze annuali, ma io non ho potuto certo firmare il contratto né assumere servizio. Mi sono così ritrovata anche senza lavoro, senza il pagamento della malattia, perché non ho un contratto. Senza il punteggio. Per un professore precario come me questo vuol dire essere scavalcati in graduatoria, con tutte le conseguenze che questo comporterà. Sono formalmente disoccupata, eppure le spese che devo sostenere sono ingenti. Ho dovuto acquistare tante medicine, stampelle, busto, pannoloni, pagare per richiedere la cartella clinica,etc. I sindacati dicono che non c’è niente da fare: “Signora, è la legge. Noi non possiamo fare niente. Solo in caso di gravidanza difficile lei può accettare una supplenza senza assumere servizio. In caso di incidente stradale, lei non è tutelata dalla legge”. Piccola lezione di paradosso all’italiana: la gravidanza è una malattia, la malattia non è una malattia. 

Mi chiedo: questo è uno Stato di diritto? Questa è sanità pubblica? La verità è che la nostra Italia non è una democrazia e che è vero che solo i ricchi possono curarsi adeguatamente. Il resto dei malati deve chiedere aiuto alle famiglie, se può, o semplicemente arrendersi alla triste realtà: non curarsi.

Io non so perché Dio abbia deciso di salvare me e non qualcun altro. Confesso di vivere questa mia condizione con un certo senso di colpa nei confronti di chi, invece, giace morto su chissà quale lembo di asfalto. Mentre ero in ospedale è morto un ragazzo in un “incidente”. Mi sentivo in colpa.

Io guarirò. Ci vorrà tanto tempo ma guarirò. Ma non sarò più la stessa persona. Il mio corpo è stato martoriato e il mio spirito ferito. Penso spesso a quando, fra qualche mese, uscirò di nuovo. Dove troverò la forza di non avere paura?
Io non riesco a spiegare quello che provo. E’ troppo complesso. Ho visto la morte e ho avuto paura. Tante altre volte l’ho invocata perché i dolori fisici sono insopportabili.

Sono tante le cose che mi mancano in queste lunghe giornate tutte dolorosamente uguali: studiare in biblioteca, entrare in classe, correre. E non so se potrò mai più tornare ad assaporare la fatica della corsa a causa delle condizioni della mia gamba destra. Ho riportato una frattura bimalleolare alla caviglia. L’osso ha bucato la pelle. A causa di ciò hanno dovuto inserirmi viti e  ferri all’interno della gamba. Ho cicatrici orrende sia sul lato esterno della gamba che sul lato interno. E’ stato un intervento di quelli complessi, a detta dei medici. Ma non devo lamentarmi perché l’altra frattura, quella vertebrale, poteva portarmi conseguenze ancora peggiori: la paralisi. La vertebra guarirà con l’aiuto di un busto molto costrittivo che sarà il mio compagno per tanti, troppi mesi. Senza di quello non posso nemmeno alzarmi a mezzo busto e quando lo indosso provo dolore e faccio fatica a respirare. Ho riportato anche una fratturina alla mano destra, varie contusioni ed escoriazioni, una ustione. Mi sanguinavano vari organi interni e ho avuto anche un ematoma a livello celebrale. Il viso, però, mi è stato preservato.

A detta di tutti devo essere contenta.
Contenta?!
Io non sono affatto contenta. Ho salva la vita ma non ho più la mia vita. E non l’avrò più. Tuttavia, per una sorta di economia mentale, devo tradurre questa esperienza in un’opportunità. E poiché i sensi di colpa non sono utili se rimangono tali, devo fare qualcosa per le persone che, come me, sono rimaste vittime di tentato omicidio stradale colposo. Iniziamo a non chiamarlo più “incidente”.

E’ per questo che mi sono permessa di scrivere pubblicamente di me. Altrimenti non l’avrei mai fatto. Chiedo perdono per quest’atto che spero non sia male interpretato. Volutamente mi sono soffermata su particolari un po’ crudi. Credo che leggere la storia di una persona a noi vicina ci faccia riflettere maggiormente. Siamo talmente bombardati dalla cronaca, tanto da non farci più caso.

Permettetemi un’ultima riflessione. Non le medicine, non la consolazione di avere la vita salva, non il pensiero della guarigione aiutano tanto quanto l’affetto delle persone che ti vogliono bene e che ti incoraggiano a non mollare.
Se voglio tramutare questa terribile esperienza in un’opportunità, devo partire da qui. Dall’incredibile solidarietà che mi è stata dimostrata e dall’affetto che mi è stato donato senza averlo mai meritato.
Per questo mi commuovo e vi dico grazie dal più profondo del mio cuore, invitandovi, umilmente, ad approfittare dei tanti miracoli che la vita ogni giorno ci concede di vivere.



Nessun commento: