di Gianni Quilici
Amos Oz, come
molti grandi scrittori, mi sembra utile anche per chi, avendo necessità
espressive e qualche talento, vuole scrivere.
Prendiamo questo
libro Scene dalla vita di un villaggio:
otto racconti, che hanno tuttavia un filo di raccordo sufficientemente evidente
per poter essere anche un romanzo.
Sono racconti,
perché hanno un inizio ed una fine, che è, però, una sorta di sospensione, non
una conclusione.
Potrebbero essere
considerati anche un romanzo, perché coesi da uno stesso luogo, Tel Ilian, piccolo paese israeliano, in cui i protagonisti appaiono come tali in
un solo racconto, ma riappaiono qua e là, anche se solo nominalmente. E’ come
se ad Amos Oz interessasse connettere insieme varie storie in un solo spazio e
tempo per far vivere come protagonista, con tanti comprimari, un villaggio. Ed
in effetti Tel Ilian acquista, nei racconti di Oz, un’anima, una sua
universalità.
Ma in che modo lo
scrittore raggiunge questo risultato?
Attraverso i
personaggi.
Amos Oz è,
infatti, abilissimo a rappresentare personaggi. Ce li fa vedere fisicamente con
dettagli o metafore originali e ce li fa sentire attraverso il flusso degli
avvenimenti, creando una tensione narrativa e un’aspettativa nel lettore per un
enigma, che rimane sospeso, non si scioglie. Ed in questo senso anche il
villaggio acquista un corpo ed un’anima sua con i suoi vuoti, le sue serate
afose e umide, gli anziani imbambolati selle soglie delle loro case, gli
incontri e le chiacchiere e la mezzaluna che splende sopra la torre dell’acqua.
Faccio un solo
esempio, sulla qualità dei personaggi, prendendo rapidamente in esame il
racconto forse più poetico Estranei.
C’è un lui: Koli
Ezra, infelice diciassettenne con due
gambe a stecchino, la carnagione scura e sul viso quasi sempre spalmata
un’espressione di mesto stupore, perdutamente ma anche disperatamente
innamorato, visto che lei ha quasi il doppio della sua età.
C’è una lei: Ada
Devash, impiegata alle poste, nonché bibliotecaria, una trentenne divorziata,
bassotta e ridanciana, rotondetta e simpatica, con occhi di un castano caldo,
con un leggero strabismo che le dona, perché quel difetto pare quasi un vezzo.
Il ragazzo la sta
aspettando, come la sera precedente, per accompagnarla dalla posta alla
biblioteca, dove insieme distribuiranno i libri.
La poesia del
racconto nasce dalla sottile maestria con cui Amos Oz riesce a far emergere il
nugolo di pensieri, di immaginazioni, di sentimenti contrastanti nel ragazzo:
la ricerca affannata di argomenti che possano interessarla, il proposito di dichiarare il suo amore e il
timore di essere deriso o comunque di suscitare pietà, fino a essere
accarezzato come se fosse un bambino, e quindi anche la voglia matta di farle
del male, di pestarla, di svegliarla; il desiderio prepotentemente fisico nel
vedere la gonna salire sopra il ginocchio o nell’immaginare i seni di lei premere sul suo petto, la gelosia verso l’autista di
autocisterna, che forse l’aspetta davanti casa e che l’avrebbe poi abbracciata
con le sue mani grassocce, e un’indecifrabile tentazione poi di proteggerla e
difenderla da lui; ma Oz è sottile anche nel delineare la delicatezza della
donna che non vuole ferirlo, ma neppure incoraggiarlo e che rimane però compiaciuta
di questa attenzione profonda e sincera ed alla fine forse potrebbe
abbandonarsi, solo che lui non osa, non capisce, chiede scusa, fugge…
Ecco, Amos Oz
conosce i suoi personaggi, li conosce non per quello che sembrano, ma per il
flusso contraddittorio dei movimenti interiori nella durata, consegnandoceli
senza una conclusione, con un interrogativo, come per dirci la vita continua, non sappiamo
come sarà, questo è, però, un attimo, una sequenza intensa, che potrà rimanere
scolpita e che ci riguarda.
Ma anche i
personaggi che appaiono per poche righe, e poi spariscono, hanno una loro evidenza
plastica. Un esempio.
In un altro
notevole racconto Smarriti, il protagonista, un immobiliarista, stanco con
gli occhi che gli bruciano, decide di fare un giretto a piedi per il paese, che
si trasformerà in un viaggetto pieno di sorprese. E la prima di queste sorprese,
l’altra sarà ancora più sorprendente, è una donna, un’estranea che sbuca, non
capisce da dove. Così Oz la descrive:
“Non era di qui.
Era molto magra ed impettita, con un naso aquilino, il collo corto e massiccio,
in testa un buffo cappello giallo pieno di spille e fibbie. Era vestita da
escursionista, aveva uno zaino rosso sulle spalle, una borraccia legata alla cintura,
degli scarponcini, teneva in mano un bastone e sull’altro braccio aveva appeso
un impermeabile, non certo adatto al mese di giugno. Sembrava ritagliata da una
pubblicità per viaggi alla scoperta della natura. Ma non qui da noi, in regioni
ben più fredde. Non riuscivo a staccarle gli occhi da dosso.
La sconosciuta ha
ricambiato con uno sguardo truce e penetrante, quasi feroce. Aveva un’aria
altera come se mi disprezzasse dal profondo del cuore, o quasi volesse dire che
per me non c’era nulla da fare lo sapevamo bene tutti e due. Era talmente
pungente quel suo sguardo, che non ho potuto fare a meno di scostare il mio e
allontanarmi (…). Dopo una decina di passi non ce l’ho fatta e mi sono voltato.
La forestiera non c’era più. Inghiottita dalla terra. Ma io non riuscivo a
mettermi il cuore in pace”.
Non la rivedrà
più, ma in questo breve passaggio lo
scrittore ce la consegna incisa brillantemente: da un lato un po’ grottesca,
“sembrava ritagliata da una pubblicità per viaggi”, dall’altra molto inquietante
con quello sguardo truce e giudicante, che lascia poi una scia di mistero.
Amos Oz. Scene dalla vita di un villaggio.
Traduzione di Elena Loewenthal. Feltrinelli.
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