di Marigabri
“Avevo vinto. E in che modo avevo vinto? Oh, era stato facile – non ci voleva niente; io ero niente.”
Atti di (auto)distruzione o, come nel titolo originale, di disperazione.
La sottomissione, la volontaria umiliazione, la precisa scelta di relazioni tossiche sono tutte conseguenze dell’odio verso se stessi, che sta a fondamento di questa spietata narrazione. Spietatamente lucida nel guardarsi dentro.
La protagonista racconta di sé gli aspetti peggiori e così facendo, attraverso la scrittura, ne prende le distanze, avvia il processo di guarigione. Così almeno si augura chi legge, al momento del congedo.
La citazione di Laing, che testimonia della ragazzina terrorizzata a percepire dentro si sé un potenziale distruttivo pari alla bomba atomica, rende bene l’idea di come esplorare i territori oscuri della propria interiorità assomigli a un viaggio iniziatico verso gli inferi. E Megan Nolan qui non si (e ci) risparmia i dettagli di questo viaggio. L’eccitazione terrorizzata, l’attrazione per la pura bellezza e il puro vuoto. Quando l’altro è tutto e noi siamo niente. Quando il sacrificio di sé sembra il giusto riscatto dal disgusto di sé.
Gli eccessi sono semplicemente il modo in cui la narratrice riesce a sentirsi viva.
Faulkner (cit) giustificava l’abbrutimento totale nell’alcol con una sola piccola frase: lo faccio perché mi piace. Allo stesso modo Megan si fa carico della propria scelta. È così perché voglio che sia così. Perdermi è la strada che ho scelto per sentirmi.
Quanto possiamo rispecchiarci qui, o trovare lo specchio di qualcuno che conosciamo, quanto ci riguardano queste parole, queste esperienze, anche se non le abbiamo fatte, o se le abbiamo solo dimenticate e sepolte, quanto Megan siamo noi, possiamo sperimentarlo solo lasciandoci portare via da questo viaggio incalzante e appassionante. Un vortice al quale arrendersi. Perché una volta toccato il fondo non si può fare altro che risalire.
Megan Nolan. atti di sottomissione. NNE
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