14 ottobre 2022

"Questo ondulare della terra" di Marisa Cecchetti

 

di Elisa Bertoni

        E' una sfida oggi proporsi al pubblico attraverso un poemetto, non solo perché affidare il racconto di fatti esterni ed interni ai versi piuttosto che alla prosa può apparire tramontato, ma anche perché ritornare al passato senza apparire anacronistici comporta lo sforzo di trascendere abitudini, convenzioni, cliché, in altre parole significa liberarsi di una tradizione per tornare alla tradizione. E un ritorno, non potendo trascendere dall'esperienza della modernità respirata inevitabilmente fino all'asfissia, apre le porte all'originale: recuperare una forma rendendola nuova.

       Marisa Cecchetti osa e vince la sua sfida, perché, pur collocandosi nel solco pascoliano dei Poemetti ed in particolare dei Nuovi Poemetti, ambientati nel contesto di una campagna che sembra rimanere sempre antica ed immobile, lo rinnova, non solo attraverso l'irruzione dell'attualità con i suoi irriducibili drammi, ma anche presentando se stessa in un linguaggio nello stesso tempo leggero e ricercato, che accenna al verismo dei termini propri della campagna senza tuttavia rinunciare al lirismo di aggettivi preziosi che frusciano tra le pagine come il vento tra le tuie descritte nel testo.

       L'orizzonte in cui si muovono i protagonisti, fratello e sorella, ed i loro fu evocati dai ricordi, è la campagna della Valdera, in un'estate di fuoco (“trentotto gradi” è ripetuto per ben due volte come dato oggettivo cui potersi riferire) che rende la terra assetata nelle sue crepe. Un dolore serpeggia a fianco della dolcezza che la memoria stessa di quei luoghi evoca nella Donna con il duplice effetto consolatorio suscitato dalla vita dei campi e dalla parola che può cantarla. 

        Tuttavia non si assiste ad una idealizzazione bucolica perché appunto della campagna non si nascondono mai le fatiche e le oscure incognite del presente e del passato proprie della terra nel suo ondulare che pur affascina e ammalia, verbo questo “ondulare” presente nel titolo e che ben riflette anche l'andamento ad onde della memoria, indubitabilmente una delle protagoniste astratte del poemetto. E se la campagna si nutre di ambivalenza tra fascino e affanno, è la parola, alla fine, che con la sua capacità di dare voce ai sentimenti e alle impressioni più profonde scatena la magia consolatoria che nemmeno le zolle, i frutti e i fiori sono in grado di donare in modo assoluto per il non sempre risolto rapporto tra essere umano e natura; una parola che sembra guidare lei stessa la mano dell'autrice nel trovare in modo autonomo la sua via espressiva. 

       Si leggano i versi: “ora che la parola avanza/tra il prima e il poi/perdo il senso del tempo/alzo gli occhi oltre il vetro/al cielo bianco di calura/e non so più/se è pomeriggio o no”. Così come il mare confonde in sé le sue onde che pure si riconoscono nelle pause di schiuma bianca e nelle impennate con cui il vento le alza nel cielo, allo stesso modo le parole confluiscono nell'unica distesa di una sintassi con punteggiatura quasi del tutto assente, ma che non impedisce l'evidenza delle singole frasi agganciate le une alle altre in un fluire armonico. 

       La parola -e la parola scritta in particolare- sono dunque l'antidoto principe a lenire la sofferenza: “qualcosa/si deve escogitare/per non spezzarsi dal dolore/ e la parola scritta/è una cura per l'anima/quando la parola nell'aria/diventa vuota e vana”. La parola, perché sia efficace, richiede cura; non stupisce quindi che Cecchetti abbia trovato in modo naturale la sua forma nei versi del poemetto, dal momento che poesia necessita di dedizione formale nella ricerca di una sintesi significativa che, fornendo contenuti per evocazione, consente al lettore di sintonizzarsi in modo libero alle vicende rappresentate, tesoro prezioso come palestra emozionale.

        La storia si apre con una domanda: “che cosa hanno in comune/la ragazzina di quel giorno lontano/-lo chiamerò giorno dei peri-/con la donna che spegne il motore/sotto le tuie parlanti?”.

      Entrambe, la donna e la bambina, il presente e il passato di un unico io, hanno conosciuto fino in fondo la precarietà, ma l'immersione nella sofferenza ha acuito la loro capacità di collegarsi al dolore universale ed in pari grado ha potenziato quella di gustare il sapore potente delle cose semplici, quelle che crescono spontanee al sole e al vento, in una tenerezza fraterna che partendo da un legame di sangue ritrovato arriva francescanamente ad abbracciare natura ed umanità tutta. Alla fine ciò che resta è un messaggio di speranza: “ed è nata una bimba/da madre afghana/dopo l'atterraggio//vita che vince sul terrore/futuro che si salva/grappolo profumato/che darà vino ancora”. Un messaggio di speranza anticipato dall'immagine del “basilico triste” che resiste “col capino all'insù”, mentre “la terra tutta crepe/grida pioggia”: in questa immagine di resistenza, sulla scia della leopardiana ginestra che ricresce sulle pendici del Vesuvio, possiamo vedere un'allegoria della donna-bambina, mai domata dagli eventi, ed anche un messaggio in cui poter riconoscere la condizione umana. Resistere oltre l'aridità diffusa che frantuma le zolle della nostra fertilità vitale ed oltre la fatica inscritta nella vita stessa in cui anche il sole, simbolo positivo per eccellenza, non nasconde la sua veste ambivalente, necessario e terribile, costante monito dell'impossibilità dell'uomo di proporsi come dominatore della natura, facendosi sole. 

        Ecco perché “sole” è senza dubbio una dei termini più ricorrenti nel testo, sia come mezzo per contestualizzare un momento della giornata (“con il sole d'estate ancora basso”) sia come sfida imposta all'uomo (“devo innaffiare a gara con il sole” e anche “a mattina ha potato/il gelsomino lei/quello sul confine/che ha strinato il sole”) sia come valore aggiunto di cui si nutre una vita che nasce (“ma Lei ti aveva dato il sole/che batteva sui campi col vento/che arrivava dal mare/tu spingesti le radici/nella vita fonde”). Ed hanno la luminosità del sole anche i versi in cui Cecchetti con una rapida pennellata disegna il paesaggio ed in pochi tratti è capace di creare una atmosfera: “ridono/scricchiola la tuia/a un soffio destato/salgono le risate il sole/svela la valle alterna/di boschi e di mietuti/con gli oliveti/lunari sui pendii/e abbracciato al colle/un paese e il campanile ritto”. E' questa atmosfera alla fine che avvolge il lettore e che gli lascia nell'animo il desiderio di scoprire e di scoprirsi nel mondo antico e pur sempre vivo della vita dei campi, che non fa sconti ma nemmeno inganna con seduzioni inautentiche. E' questo l'ondulare della terra in cui vorremmo farci cullare. 

Marisa Cecchetti. Questo ondulare della terra. Il giovane Holden. Euro 9,00

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Grazie Elisa, grazie Gianni!

Anonimo ha detto...

Bellissimo libro!