02 ottobre 2022

" Versi in viaggio " di Gianni Quilici

 


di Elisa Bertoni

       Approcciando il libro di poesie Versi in viaggio di Gianni Quilici mi ha colpito la risposta che l'autore ha dato ad un interrogativo che lui stesso si pone all'inizio della raccolta, ovvero se tra scrivere e fotografare c'è armonia. Avrei ritenuto che la risposta fosse affermativa dal momento che anche in Lucca che vive, libro curato dal medesimo autore, la città toscana si disvela passo dopo passo attraverso un suggestivo accostamento tra una fotografia e uno scritto in prosa o in versi di vari autori lucchesi.

       Gianni Quilici si focalizza invece sullo scarto per cui le due passioni sono in una certa misura in conflitto dal momento che, come afferma lo scrittore: “Se fotografo non scrivo e viceversa. Quindi il mio esserci è continuamente in perdita, anche se la poesia non necessariamente è immediata”. Una sorta di bulimia espressiva rivela il bisogno profondissimo di trovare i mezzi adeguati a cogliere quelle illuminazioni che come barlumi di senso e di bellezza accompagnano la quotidianità delle nostre giornate, quando l'occhio apre i suoi petali alla luce dell'incanto: non è un caso che luce, mistero, incanto siano parole ricorrenti nei suoi versi.

       Ma realmente ciò che arriva al lettore è questa dicotomia, questa sensazione di perdita? Leggendo, o meglio gustando le poesie, si percepisce invece un intimo affratellamento tra i due linguaggi espressivi, quasi che questa duplice passione di Quilici li abbia avvicinati a tal punto che ogni lirica è un piccolo fotogramma così come sono poesie le foto che qua e là impreziosiscono le pagine del libro: poesia fotografica e fotografia poetica.

       Il poeta ama cogliere l'attimo senza scavarlo, lambendolo appena perché gli resti quella carezza fotografica che lo salvi dall'oblio. Si legga Saint Pons: “Fasciata d'azzurro/le cosce incrociate/immobile/sul marciapiede/si pavoneggia./Immagine veloce/dall'auto passando”. Sono scatti che sfiorano persone e luoghi in uno stile impressionistico il quale rifugge dai contorni netti e predilige lo sfumato evocativo: “Saint Paul de Vence// Di fronte alla porta/ che sottende un mistero/ aspetto quel corpo/che esalti lo scatto.//Poi entro e mi attira/ quell'ombra/ che disegna per terra/la luce./Misuro il tragitto,//misuro i miei passi,/ la vita si srotola/se sappiamo captarla:/il paesaggio e le mura/i dettagli di quadri/i sotterranei pensieri”.

       Poesia e fotografia nascono nell'autore dallo stesso struggente bisogno di raccogliere dall'incessante fluire della vita attimi che la rendano significativa, che vengano sottratti all'anonimato in modo che anche il tempo stesso possa dilatarsi sulla base dei propri flash: un medesimo luogo può realmente diventare infinito e mai una volta per tutte esaurirsi grazie ai molteplici punti di vista. Un desiderio quasi allineabile a quello dell'Ulisse dantesco per cui si sfida il limite attraverso la possibilità infinita di assaporare e fotografare istanti. Si legga ad esempio la poesia L'occhio: “Se il cinema è un occhio/e il nostro occhio/è un occhio,/ lo schermo avrà allora /molti occhi/che guardano/ che sono guardati/che riflettono/ che sfuggono/ che si seducono/ che si perdono.// L'occhio come/sconfinato sguardo/sullo schermo come/ nella vita.//Occhi che dovrebbero/ affinarsi e problematizzarsi,/ elasticizzarsi,/ purificarsi”. E si legga anche Fino a diventare fiume, quasi un monito ad assimilarsi fino in fondo all'eracliteo “tutto scorre” che caratterizza l'esistenza: “Non perdere ciò che si ha./ Guardarsi attorno./ Mettersi in altri punti di vista./Aspettare./A occhi chiusi e visione aperta./ Fino a diventare fiume,/ piacere del fluire,/senso del viaggio,/vastità da donarsi/ e da donare”.

       Se si volesse trovare una dichiarazione di poetica tra i tanti testi, significativa appare la poesia Vorrei, posta non a caso all'inizio del “primo viaggio”: “Vorrei rivitalizzare/ogni anfratto di inerzia/ora che inizia il viaggio/ con quello scatto/supremo/ di libertà/come quando si incamera fiato/che poi leggero/si spande”. Innanzitutto si avverte la presenza di un desiderio incalzante, costante ispirativa dell'autore, sebbene mai sfacciato o volgare perché ben mitigato dall'uso del condizionale “vorrei”, una passione allo stesso tempo potente e delicata, un bisogno di dare vita per attingere vita in un inesauribile rifornimento di energia, perché anche i più piccoli anfratti possano essere rivitalizzati. La parola “anfratto” denota l'attenzione sempre vigile e stupefatta al dettaglio che diviene uno stimolo vitale. Il verbo “iniziare” sembra rivelarci poi una possibilità inattesa: in ogni istante può cominciare un viaggio, basta avere coscienza della possibilità offerta ai nostri occhi quando si connettono alle emozioni in modo da accarezzare il mondo con rinnovato stupore.

       Il viaggio è in fin dei conti proprio l'incanto che non si conclude mai, esorcizzando la parola fine. A questo proposito, appare calzante la poesia Stasera: E' così dolce la sera/ stasera/ che un'aria leggera sembra/ che spiri da lontano/e acuta entri/come un'eco dal fondo/come promessa/d'una vita mai vista/né vissuta.//Non la fine./L'inizio. Giocando con gli eco che provengono anche da una tradizione poetica della nostra letteratura da Foscolo, a D'Annunzio a Pascoli, Quilici con sottile musicalità propone la lettura della sua sera, molto lontana dalla percezione del nulla eterno: nello sfumare del giorno si vede riaffiorare l'opportunità vera o sognata di una nuova vita, non la fine, appunto, ma l'inizio, rovesciando quell'impressione di malinconia che ai naviganti, e non solo a loro, “intenerisce il core”.

       Tornando alla poesia Vorrei, altro termine chiave, come già emerge dal titolo del libro, è viaggio: i versi sono in viaggio, perché le parole sembra che si mettano in moto sospinte da questa profonda esigenza di espressione, ma anche “viaggio in versi”, non solo perché l'ispirazione trova alimento dai viaggi effettivamente compiuti dall'autore, cui sono dedicate specifiche sezioni, ma perché la parola viaggio diventa una forma mentis, il paradigma con cui si può approcciare l'esistenza: è un viaggio la post-adolescenza, l'esperienza scolastica, lo sono i linguaggi, la musica, il cinema e tutto quanto ci coinvolge, ci distoglie, ci matura, ci rovescia, ci accoglie e ci rifiuta.

       Sempre in Vorrei troviamo la parola “scatto”, termine principe della fotografia, che conferma la predilezione dell'autore per una poesia fotografica; in questo caso si parla di scatto di libertà, concetto più che politico, condizione essenziale per la vita come l'aria che espandendosi nei nostri polmoni ci consente di respirare. Viaggio e libertà sono dunque strettamente imparentati: viaggiare dilata la possibilità di conoscere e libera, nello stesso tempo senza una libertà fisica e psicologica non si può viaggiare.

       Poesia della luce, dunque, senza la quale non ci sarebbe fotografia, ed anche poesia del desiderio e di un vitalismo post-dannunziano ben ritratto nel sottile erotismo dei corpi nudi anche se vestiti e vibranti anche se fermi; un vitalismo che, seppure con lotta sofferta, alla fine prevale sull'amarezza di un'umanità negligente, accalcata, distratta. Si legga ad esempio la poesia Immersione: “Di più fare di più tutto./ Non perdere tempo/e prendere quei pensieri sottili/che vanno esili e veloci/ e che quasi subito si perdono/ assaporando con lo sguardo/ i segni infiniti delle cose/annusando odori laddove essi respirano/mettendo in moto corpo e gambe/ nella luce più splendida d'estate”.

       Oppure si legga 3 della sezione Viaggio al Torino Film Festival: “Non sopporto la folla della domenica/che passeggia/tra noia e consumo./Amo le poltroncine rosse/ disposte ad anfiteatro/ come inizio di un'avventura”. Una poesia di contrasti, si pensi ai primordi dell'ispirazione in un testo del 1969 che ben descrive l'uomo appassionato in rivolta: E' la prima volta che vivo./L'avvenire tremolante della mia volontà/si abbaglia anche di illuminazioni.//Il desiderio di conoscenza/mi stringe/irrazionalmente.//Avere pensieri lunghi/contorti di originalità/che sorprendano.//Vorrei vedermi Altro/ci perdo tempo/e poi.//Imprigionato in rivolta continua/volermi tutto/naturalmente invano.

Gianni Quilici (anni '80) foto Maddalena Ferrari

      
In Gianni Quilici si assiste spesso ad una dialettica quasi parmenidea tra essere e non essere in cui però anche ciò che è nulla diventa comunque una forma di sana modalità di essere (si legga da La bara: “...Io sono e non sono/è questa mia alterità/di essere non essendo/che mi rende unico/tra i tanti unici/ della Storia”). Nel movimento di opposti l'autore riesce alla fine a trovare un suo equilibrio. A questo proposito molto interessante è la poesia “Nulla mi aspetto dagli altri”, in particolare i due versi che suggellano la chiusa: “Sono e grido./Non sono e sparisco”. Nell'incisività di questa sintesi pare racchiudersi il segreto dell'autore che diviene anche un messaggio da affidare con perentoria delicatezza agli altri esseri umani: la sensazione della vacuità che ci circonda non deve vanificare la lotta ed il desiderio di affermazione, nello stesso tempo ogni aspettativa, dalla più moralmente elevata a quella più egotica ed autoreferenziale, non deve far dimenticare la condizione di irreversibile precarietà dell'esistenza in cui il silenzio diviene la musica dominante. L'accettazione della vita pare trovare alimento proprio da questa ambivalenza senza soluzione: vivere e desiderare nella consapevolezza del nulla, sparire e abbandonarsi nella consapevolezza di aver vissuto e lottato.

       Per concludere, ho scelto di citare un'ultima poesia intitolata Solo per quello: Che scomparisse pure/il volto mio,/che rimanesse soltanto/la dolcezza e l'energia/ e fossi amato/solo per quello. Sono versi quasi commoventi, per cui il poeta nell'accettazione di una perdita di identità rappresentata simbolicamente dalla scomparsa del proprio volto aspira a lasciare di sé solo dolcezza ed energia, qualità che si colgono in modo tangibile in tutta la raccolta. La sua fisicità si stempera nell'astrazione pur sempre tattile e corposa di questa dolce energia che con quasi ossimorica potenza anima le pagine del libro.

      Grazie a questa raccolta Quilici ci permette di capire quanto la poesia possa essere un linguaggio da riscoprire nella nostra epoca. Ogni testo si può leggere a sé come un chicco d'uva che si coglie in fretta da una pigna matura e che continua ad addolcirci la bocca, consentendo al lettore di pensare e allargare i propri orizzonti, dal momento che sono i pensieri, altro termine chiave, e la propria interiorità l'unico luogo inviolato che possiamo rivendicare come tutto nostro e nello stesso tempo dono per affratellarci agli altri. La poesia diviene un antidoto contro la frenesia, non per combatterla in una lotta sanguinosa a viso aperto: essa nella sua brevità ed immediatezza può incastrarsi nel concitato trantran delle nostre giornate e, lavorando da dentro, rivendica per ciascuno in modo silenzioso ma sempre più imperativo il diritto di riprendersi in mano il proprio tempo. Vindica te tibi, affermava Seneca. Con questo libro di poesie possiamo davvero “rivendicare noi a noi stessi”, renderci più autonomi e creativi. Perciò buona lettura, o buon assaggio, sicuramente buon viaggio. 

Gianni Quilici. Versi in viaggio, Tra le righe libri

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