03 marzo 2023

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici


GIANNI QUILICI, foto di Maddalena Ferrari
di Elisa Bertoni

       Non è facile inquadrare il romanzo di Gianni Quilici Non è che l'inizio, una narrazione prevalentemente in prosa, che accoglie anche parti in poesia e fotografie scattate dall'autore stesso: un fotoprosimetro, per coniare un neologismo.

       Esso ruota attorno alle vicende dell'io narrante-io narrato, Zeta, come viene chiamato dai compagni del PCI, che in prima persona con un inizio ex abrupto ci introduce nella sua vita raccontandoci emblematicamente dieci giornate, le quali paiono discostarsi in modo radicale dallo scenario pre-rinascimentale delle dieci giornate del Decamerone, i cui giovani novellatori tentano di opporsi alla pestilenza dilagante attraverso l'arte del racconto, e neppure rassomigliano alla epica insurrezione dei Bresciani contro gli Austriaci nel noto episodio del nostro Risorgimento nazionale, passato alla storia come le “Dieci giornate di Brescia”.

       Eppure “resistenza” e “rinascita-risorgimento” sono costantemente presupposti nello scenario esistenzialistico del ventottenne protagonista in perpetua opposizione, anche con se stesso, per provare a trasformarsi per trasformare e a “ricominciare una volta per tutte”, nel tentativo di una ri-creazione che passa attraverso espansione e annullamento. Il giovane demiurgo, tuttavia, pare muoversi entro una spirale che finisce per avvolgersi sempre su se stessa e l'agognata imperativa metamorfosi cozza con i rifiuti amorosi, politici, scolastici che tra alti e bassi costellano la sua esistenza.

       Posso, voglio, devo: è un libro dove i verbi servili abbondano, soprattutto “devo/dovrei”, insistentemente presenti nel testo, che marcano il bisogno di sentirsi padroni della propria esistenza, di essere l'assoluto regista del proprio film, ma anche un compiaciuto esteta di ogni frammento di vita che gli appartiene.

      Un dandismo tutto originale che paradossalmente allarga le potenzialità dell'arte fino ad accogliere come sensazionale il banale, il quotidiano, lo scontato, senza rifiutare gli aspetti dei bisogni corporei escrementizi ed esaltando l'eros che diventa la più evidente ossessione del protagonista; egli ama voyeuristicamente mostrare al lettore le proprie nudità, farlo partecipare al suo sesso e ai suoi orgasmi, non nel contesto di una raffinatezza esasperata ed esclusiva da esteta dannunziano ma nel pieno vitalistico istinto che alla fine rinuncia a sofisticati ed artefatti esperimenti, sia nella pratica sia nel linguaggio. Il tutto vissuto con l'invadenza di un'immaginazione che sovrasta la realtà stessa: “avrei bisogno di violentare la mia immaginazione dentro un corpo vivo, sottile, potente, che rispondesse colpo su colpo, parola su parola, fantasia su fantasia, che sapesse giocare facendo sul serio”.

       La sposata, la separata ed Eloisa: tre donne gravitano intorno al cuore del protagonista, ma solo una di esse, l'unica di cui conosciamo il nome, fanciulla idealizzata, assume a tratti alcune caratteristiche della donna angelo dantesca nell'aura di mistero che la circonda. Si legga in particolare la frase: “Improvvisamente mi appare davanti lei, Eloisa, ed è come se mi si illuminasse lo spazio”. E' Eloisa a far vibrare il suo animo di emozioni più profonde, con effetti non poi così dissimili dalla Beatrice dantesca. Dai loro dialoghi emerge addirittura la parola sublimazione: “...ti voglio sublimare...no no, non è che ti voglio, non è che me lo prefiggo, viene naturale. E' come una specie di trasfigurazione... non so... Quando sono con te mi sembra poi ripensandoci di essere vissuto come in un sogno...”. Il lettore rimane tuttavia sospeso nell'incertezza se attribuire piena sincerità a queste parole o se considerarle solo una tattica di seduzione di fronte ad una ragazza che non si potrebbe conquistare in altri modi, se non facendola sentire una creatura quasi divina. Prosegue infatti il protagonista: “Però ti sento anche molto reale, molto fisica... Le tue cosce, per esempio...”. Ben lontano da prospettive mistiche, la sublimazione di Zeta è piuttosto un bisogno mentale che prelude alla soddisfazione fisica, dal momento che ogni vero erotismo si nutre necessariamente di fantasia.

       


Emblematica della preminenza di un desiderio sessuale inscritto anche nel paesaggio è la fotografia inserita a far da prologo alla prima giornata: essa ritrae la sortita di San Frediano nella prospettiva di chi, spalle alla città, osserva un passante che esce dalla piccola porta illuminata. Il bianco e nero consente di mettere in rilievo, in primo piano, un dissuasore stradale in pietra, più chiaro sulla punta, che acquista evidenza fallica, così come la porta sullo sfondo potrebbe rappresentare l'accesso al femminile in un desiderio inesausto che con la sua energia diviene la nota dominante del libro. La sobrietà e la semplicità degli elementi ritratti sono in linea con una passione che emerge nitida dall'oscurità torbida del proibito e si staglia nuda e autentica secondo un'intenzione programmaticamente dichiarata dallo stesso protagonista: “essere sincero fino all'autolesionismo”. In questo libro tutto è una recita e niente è una recita quasi a voler comunicare la natura teatrale dell'esistenza stessa che va vissuta come attori i quali, senza aver studiato la parte, sviluppano un copione ora autoimposto ora affidato al caso che, nonostante tutto, non può essere mai dominato dai propri imperativi.

        Non si deve credere che l'erotismo del libro emerga solo legato alla sfera della genitalità; a volte possono essere le descrizioni di azioni quotidiane come quella di addentare un panino a caricarsi di voluttuosa corporeità: “addento il panino con gusto come mi ricordo di aver visto fare da bambino ad una donna che addentava, buccia e tutto, una di quelle mele deliziose ancora acerbe, con denti bianchissimi e forti che lasciavano nell'aria il rumore di quei morsi”.

        I pasti di Zeta, semplici ed appetitosi, sono anch'essi un refrain quasi al pari di quelli di Pereira nel romanzo di Tabucchi: “Che piacere sentire l'olio scoppiettare con le uova quando friggono, mentre i fagioli si stringono nel chiaro dell'uovo o si spandono e le olive semplicemente si scaldano! Potrei parlare di questa cena come di un rito? Sì, forse perché sono solo, forse perché sono appena le sei ed il sole allunga ancora i suoi raggi sui tetti più alti della città, forse perché mi sembra di simulare una scena già vista”.

        Un romanzo che si nutre dunque di atmosfere esistenzialiste di matrice moraviana, con momenti di nebbioso languore che pare dileguare nel fumo delle Malboro o nei vicoli di una città provinciale come Lucca o nelle stanze di abitazioni cittadine, in una soffitta, nella sezione del partito.

        Nel libro il realismo è a tratti talmente ricercato nella descrizione dei particolari fisici ed ambientali che appare costruito come si trattasse di un film montato ad arte, un iperrealismo che di fatto nega il realismo; inoltre le inserzioni oniriche introducono le storie in una dimensione interiore, rievocando caratteristiche non distanti da certe suggestioni felliniane, per il marcato autobiografismo per cui ogni evento finisce per caricarsi di un'impronta egoica, anche nell'afflato politico e professionale.

        Il narratore è talmente attento a cogliere la sintesi perspicua che caratterizza gli altri che persino il lettore, a tratti, ha l'impressione di poter essere spiato dal suo occhio indagatore.

        Un personaggio pieno di contrasti che cerca la libertà attraverso i pensieri e nei pensieri affoga, attraverso il sesso e nel sesso si esaspera, attraverso la politica e nella politica si impaluda, attraverso la scuola e nella scuola smania. Ecco che anche i suoi viaggi in bici appaiono confinati entro il cerchio delle mura della città di Lucca, seconda protagonista della storia, e la bicicletta stessa finisce per avere la ruota sgonfia; così pure le uscite con la R4 terminano con una multa per eccesso di velocità. L'autore è abile nello spostare i sentimenti del lettore sugli oggetti amati dal protagonista e pertanto la bicicletta e la R4 acquistano presenza icastica ed evidenza materiale, quasi alterego del narratore stesso.

        Si può dunque parlare di un vinto, di un inetto destinato alla castrazione dei propri slanci, tanto per rievocare simbolicamente la sorte dell'illustre Abelardo nella sua passione per la giovane Eloisa?

       La poesia testamento sul finale del libro potrebbe anche lasciarlo intuire nella sua chiusa nichilista:

“...e poi nei milioni e milioni di anni/nulla niente altro che nulla”.

       In realtà il suo riscatto è la sua inesauribile energia, la sua spinta ad andare sempre oltre. Per Zeta, col nomen omen di essere l'ultima lettera dell'alfabeto, il nulla non è che l'inizio... Tutto è dato osare e “la lotta continua...”.

Gianni Quilici. 

Non è che l’inizio. 

Tra le righe libri. 

Euro 13,00

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