di Gianni Quilici
“Sconfinamenti”
di Tano Siracusa: un centinaio di pagine appena, ma forse una delle più profonde e soprattutto
articolate riflessioni su ciò che significa “fare fotografia”. Perché dentro
queste pagine sono affrontati i problemi e i processi psichici, pratici e
intellettuali, che si snodano prima, durante e dopo lo “scatto”. Che sono
tanti: la scelta e la motivazione di un reportage, il viaggio e la sua narrazione, la ricerca
dello scatto, l’attesa o la casualità, l’istante scelto, rubato, fortunato, o viceversa mancato, la
riflessione sulla foto e quindi sulla realtà stessa dell’immagine, il lavoro in
camera oscura e le sue sorprese, le differenze tra la macchina fotografica
analogica e quella digitale, l’interrogativo di fotografare o non fotografare
in situazioni specifiche e così via.
L’originalità
e la forza del libro nascono comunque dalla qualità in cui si fondono il
fotografo, il critico e il narratore. Perché non è, neppure da lontano, un
manuale fotografico, ma 23 racconti di viaggi in Paesi che vanno dall’India al
Marocco, dal Cile al Perù, dal Madagascar alla Tanzania, dal Nepal alla Guinea,
dalla Turchia a Agrigento, l’unico luogo italiano, dove, tra l’altro, il
fotografo vive.
Il
fotografo e il critico
Della qualità del
fotografo ho già scritto interpretando la foto di copertina di questo libro (
vedere qui sopra, Libere recensioni, giugno 2023) e ne scriverò, penso, in uno
dei suoi libri –credo- più impegnativi “con
i suoi occhi”. Vorrei qui soltanto fare due osservazioni su due foto abbastanza
diverse.
La prima è questo scatto,
“rubato”, di cui è facile cogliere immediatamente il valore. Siamo in una
cittadina della Guinea, anno 1997, dove non è neppure consigliabile girare con
una macchina fotografica a tracolla, quando, scrive Tano Siracusa “all’improvviso
da destra e da sinistra, convergendo verso il binario, erano apparsi un bambino
e un cane. Correvano entrambi, il bambino inseguendo dietro un copertone, che sembrava dotato di una sua propria vitalità
e intenzione” e per un attimo (quello dello scatto) si era felicemente formato
un triangolo, che inserendo sullo sfondo l’uomo che stava
entrando nel capannone, si trasformava in una forma romboidale. Da questa
lettura Tano Siracusa esplicita una conseguenza, che potrebbe far parte di
un’ipotetica “teoria fotografica”, certamente più pertinente del famoso
“punctum” di Roland Barthes, molto suggestivo poeticamente, quanto
oggettivamente troppo personalistico. Scrive infatti:” . . . uno scatto ha senso se mostra ciò che
raramente si vede, se presenta un coefficiente alto di improbabilità”. In
questa immagine questo alto tasso di improbabilità è ” la complessità
dell’ordine che si può formare spontaneamente in un frammento di spazio-tempo”.
Non sarà questa un’osservazione inedita, ma vera, perché una qualità di un
fotografo (vero) è sapere scegliere la foto “buona”, da una “non buona” o anche
solo apparentemente buona.
Questa immagine scattata
nel Benin, anno 2000, ad uno sguardo superficiale o distratto potrebbe, invece,
sembrare banale. Non lo è. E Tano Siracusa la interpreta motivando il valore
espressivo e sociologico della suora chinata e sfuggente e dei due personaggi
“appena profilati ai lati che sembrano aprire e incorniciare lo spazio” offrendo
a lei, la suora, il centro. Da qui un’osservazione, osservo, che può sembrare
scontata: una foto ha bisogno di essere osservata, incamerata, perché ci sono
dettagli che non si comprendono facilmente.
Il narratore
L’aspetto, a mio parere, però, più originale del libro per un
fotografo è la sua qualità narrativa. Enucleo in modo scolastico, perché non
c’è una divisione netta, tre profili narrativi della prosa di Tano Siracusa.
Una narrativa visiva.
“A
Benares quell’estate del 1989 c’era il coprifuoco. All’imbrunire sulle rive del
Gange all’affacendarsi degli umani, degli asini e delle vacche, si aggiungeva
quello dei cani rinvigoriti dalla prima brezza al tramonto. Ma appena fuori dalla
zona franca, dove l’acqua e la terra, la vita e la morte non cessavano mai di
mescolarsi, la città era deserta, agli incroci si vedevano solo pattuglie di
militari e persone affacciate ai balconi. Ogni tanto dall’oscurità appariva
qualche spericolato risciò a pedali che si arrischiava a scivolare nelle vie
più buie, per spavalderia e molto per la mancia di chi veniva portato a
destinazione”.
In poche parole due
immagini vigorose non solo descrittive, ma incorniciate dentro una dimensione
realistica (tra l’acqua e la terra) e una metafisica ( tra la vita e la morte).
Una narrativa sociologica.
L’uomo
della foto circondato da bambini somigliava un po’ al Gatto collodiano e come
lui non si faceva scrupoli di abbindolare i bambini. Sfacciato e sornione, si
esibiva volentieri nei suoi trucchi anche davanti al fotografo occidentale che
non doveva neppure chiedergli il permesso di riprenderlo.
Il
Gatto apparteneva ad una vasta corte dei miracoli, personaggi vestiti spesso in
modo stravagante, imbonitori, truffatori per vocazione e naturale talento
mescolati ai cantastorie e ai musici che si esibivano davanti a un pubblico di
adulti e incantatori di serpenti che
popolavano quel mondo di meraviglie e di avventure pericolose.
C’era
questa comune sensazione d’irrealtà che tornava a sovrapporre l’incerta memoria
del passato a un presente ambiguo, sfuggente, che accostava l’urto dei tre
mendicanti ciechi, cantilenanti la loro preghiera nel casbah di Casablanca, ai miraggi di un paesaggio che
sconfinava, sbalzava le prospettive, alterava le distanze come nelle
allucinazioni.
Tutto il viaggio nel
Marocco, a Safi, a Essaouira è ricco di osservazioni acute. Qui il ritratto del
“gatto collodiano” è penetrante nella
doppiezza della sua natura di imbroglione e questo si allarga a una vasta
tipologia di personaggi che stupiscono, che meravigliano. Un mondo ancora
premoderno in cui anche la percezione visiva del paesaggio si sdoppia, vicina o
lontanissima, sospesa tra realtà e irrealtà,
e la percezione del tempo, a
volte, si rallenta, rimane sospesa, immobile; qualche volta, si dilata in una sorta
di estatica eternità. Erano quei viaggi fatti negli anni tra il 1983 e il 1988.
E infine una narrazione decisamente
introspettiva
“Uscendo a precipizio da casa aveva avuto un lucido retropensiero e
aveva preso la borsa fotografica, forse per una memoria innervata nel corpo, al
di qua del panico e del gorgo che lo inghiottiva. La memoria di un silenzio che
crea lo stacco, l’arresto del tempo che rotola verso la catastrofe, e vi
sostituisce una visione: nulla a che fare con le estasi mistiche o di fumatori
di oppio, ma solo la visione di una forma in equilibrio che rompe il
rovinoso precipitare del tempo”.
L’autore scrive in terza
persona. Quel giorno ad Agrigento nel 1984, infatti, era scisso, perché
“soggetto a rare ma travolgenti crisi di panico”. Per questo aveva un piano di azioni in mente
con lo scopo di raggiungere il primo bar aperto per chiedere subito aiuto,
oppure ordinare un caffè o anche una Ceres ecc, ecc. Nel breve estratto postato
qui sopra c’ è una sottilissima introspezione. L’autore supera, in un primo
momento, il panico, il gorgo che lo inghiottisce, perché prende la macchina
fotografica. Questo atto quotidiano nasce da un
pensiero retroattivo, una sorta di memoria innervata automaticamente nel
corpo, non una scelta consapevole, diventa
una visione che si contrappone al panico e forma una sorta di equilibrio
momentaneo. Tutto questo avviene naturalmente in un attimo. Il panico cesserà
poco dopo sulla strada, quando il suo sguardo sarà attratto da un gruppo di
ciclisti nel controluce del sole “con le loro ombre sull’asfalto come su un
fiume di luce”. A quel punto, guardando
dentro il mirino, si accorge con stupore che “era cessato il frastuono,
la fuga insensata, il tonfo del sangue alle tempie”.
“Sconfinamenti” diventa
allora un bellissimo titolo nella sua nettezza, perché tutti questi viaggi
nell’immagine e nella parola diventano la ricerca dell’altro e dell’altrove, il
desiderio di uscire dai confini, di entrare in territori mai visti vivendoli,
oltrepassandosi, rappresentandoli.
Tano Siracusa. Sconfinamenti. Prefazione di Alfonso
Maurizio Iacono. Antìpodes, Palermo 2023. £ 12,00
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