19 marzo 2024

"Sconfinamenti” di Tano Siracusa

 




di Gianni Quilici

       “Sconfinamenti” di Tano Siracusa: un centinaio di pagine appena, ma  forse una delle più profonde e soprattutto articolate riflessioni su ciò che significa “fare fotografia”. Perché dentro queste pagine sono affrontati i problemi e i processi psichici, pratici e intellettuali, che si snodano prima, durante e dopo lo “scatto”. Che sono tanti: la scelta e la motivazione di un reportage,  il viaggio e la sua narrazione, la ricerca dello scatto, l’attesa o la casualità, l’istante scelto, rubato,  fortunato, o viceversa mancato, la riflessione sulla foto e quindi sulla realtà stessa dell’immagine, il lavoro in camera oscura e le sue sorprese, le differenze tra la macchina fotografica analogica e quella digitale, l’interrogativo di fotografare o non fotografare in situazioni specifiche e così via.  

      L’originalità e la forza del libro nascono comunque dalla qualità in cui si fondono il fotografo, il critico e il narratore. Perché non è, neppure da lontano, un manuale fotografico, ma 23 racconti di viaggi in Paesi che vanno dall’India al Marocco, dal Cile al Perù, dal Madagascar alla Tanzania, dal Nepal alla Guinea, dalla Turchia a Agrigento, l’unico luogo italiano, dove, tra l’altro, il fotografo vive. 

Il fotografo e il critico

        Della qualità del fotografo ho già scritto interpretando la foto di copertina di questo libro ( vedere qui sopra, Libere recensioni, giugno 2023) e ne scriverò, penso, in uno dei suoi libri –credo- più impegnativi “con i suoi occhi”. Vorrei qui soltanto fare due osservazioni su due foto abbastanza diverse.



       La prima è questo scatto, “rubato”, di cui è facile cogliere immediatamente il valore. Siamo in una cittadina della Guinea, anno 1997, dove non è neppure consigliabile girare con una macchina fotografica a tracolla, quando, scrive Tano Siracusa “all’improvviso da destra e da sinistra, convergendo verso il binario, erano apparsi un bambino e un cane. Correvano entrambi, il bambino inseguendo dietro un copertone,  che sembrava dotato di una sua propria vitalità e intenzione” e per un attimo (quello dello scatto) si era felicemente formato un triangolo,  che  inserendo sullo sfondo l’uomo che stava entrando nel capannone, si trasformava in una forma romboidale. Da questa lettura Tano Siracusa esplicita una conseguenza, che potrebbe far parte di un’ipotetica “teoria fotografica”, certamente più pertinente del famoso “punctum” di Roland Barthes, molto suggestivo poeticamente, quanto oggettivamente troppo personalistico. Scrive infatti:” . . .  uno scatto ha senso se mostra ciò che raramente si vede, se presenta un coefficiente alto di improbabilità”. In questa immagine questo alto tasso di improbabilità è ” la complessità dell’ordine che si può formare spontaneamente in un frammento di spazio-tempo”. Non sarà questa un’osservazione inedita, ma vera, perché una qualità di un fotografo (vero) è sapere scegliere la foto “buona”, da una “non buona” o anche solo apparentemente buona.



      Questa immagine scattata nel Benin, anno 2000, ad uno sguardo superficiale o distratto potrebbe, invece, sembrare banale. Non lo è. E Tano Siracusa la interpreta motivando il valore espressivo e sociologico della suora chinata e sfuggente e dei due personaggi “appena profilati ai lati che sembrano aprire e incorniciare lo spazio” offrendo a lei, la suora, il centro. Da qui un’osservazione, osservo, che può sembrare scontata: una foto ha bisogno di essere osservata, incamerata, perché ci sono dettagli che non si comprendono facilmente.   

Il narratore

       L’aspetto, a mio parere,  però, più originale del libro per un fotografo è la sua qualità narrativa. Enucleo in modo scolastico, perché non c’è una divisione netta, tre profili narrativi della prosa di Tano Siracusa.

Una narrativa visiva.

“A Benares quell’estate del 1989 c’era il coprifuoco. All’imbrunire sulle rive del Gange all’affacendarsi degli umani, degli asini e delle vacche, si aggiungeva quello dei cani rinvigoriti dalla prima brezza al tramonto. Ma appena fuori dalla zona franca, dove l’acqua e la terra, la vita e la morte non cessavano mai di mescolarsi, la città era deserta, agli incroci si vedevano solo pattuglie di militari e persone affacciate ai balconi. Ogni tanto dall’oscurità appariva qualche spericolato risciò a pedali che si arrischiava a scivolare nelle vie più buie, per spavalderia e molto per la mancia di chi veniva portato a destinazione”.

       In poche parole due immagini vigorose non solo descrittive, ma incorniciate dentro una dimensione realistica (tra l’acqua e la terra) e una metafisica ( tra la vita e la morte).

Una narrativa sociologica.

L’uomo della foto circondato da bambini somigliava un po’ al Gatto collodiano e come lui non si faceva scrupoli di abbindolare i bambini. Sfacciato e sornione, si esibiva volentieri nei suoi trucchi anche davanti al fotografo occidentale che non doveva neppure chiedergli il permesso di riprenderlo.

Il Gatto apparteneva ad una vasta corte dei miracoli, personaggi vestiti spesso in modo stravagante, imbonitori, truffatori per vocazione e naturale talento mescolati ai cantastorie e ai musici che si esibivano davanti a un pubblico di adulti e  incantatori di serpenti che popolavano quel mondo di meraviglie e di avventure pericolose.

C’era questa comune sensazione d’irrealtà che tornava a sovrapporre l’incerta memoria del passato a un presente ambiguo, sfuggente, che accostava l’urto dei tre mendicanti ciechi, cantilenanti la loro preghiera nel casbah  di Casablanca, ai miraggi di un paesaggio che sconfinava, sbalzava le prospettive, alterava le distanze come nelle allucinazioni.

        Tutto il viaggio nel Marocco, a Safi, a Essaouira è ricco di osservazioni acute. Qui il ritratto del “gatto collodiano” è  penetrante nella doppiezza della sua natura di imbroglione e questo si allarga a una vasta tipologia di personaggi che stupiscono, che meravigliano. Un mondo ancora premoderno in cui anche la percezione visiva del paesaggio si sdoppia, vicina o lontanissima, sospesa tra realtà e irrealtà,  e la percezione del  tempo, a volte, si rallenta, rimane sospesa, immobile; qualche volta, si dilata in una sorta di estatica eternità. Erano quei viaggi fatti negli anni tra il 1983 e il 1988.  

E infine una narrazione decisamente introspettiva

Uscendo a precipizio da casa aveva avuto un lucido retropensiero e aveva preso la borsa fotografica, forse per una memoria innervata nel corpo, al di qua del panico e del gorgo che lo inghiottiva. La memoria di un silenzio che crea lo stacco, l’arresto del tempo che rotola verso la catastrofe, e vi sostituisce una visione: nulla a che fare con le estasi mistiche o di fumatori di oppio, ma solo la visione di una forma in equilibrio che rompe il rovinoso  precipitare del tempo”.

       L’autore scrive in terza persona. Quel giorno ad Agrigento nel 1984, infatti, era scisso, perché “soggetto a rare ma travolgenti crisi di panico”.  Per questo aveva un piano di azioni in mente con lo scopo di raggiungere il primo bar aperto per chiedere subito aiuto, oppure ordinare un caffè o anche una Ceres ecc, ecc. Nel breve estratto postato qui sopra c’ è una sottilissima introspezione. L’autore supera, in un primo momento, il panico, il gorgo che lo inghiottisce, perché prende la macchina fotografica. Questo atto quotidiano nasce da un  pensiero retroattivo, una sorta di memoria innervata automaticamente nel corpo, non una scelta consapevole,  diventa una visione che si contrappone al panico e forma una sorta di equilibrio momentaneo. Tutto questo avviene naturalmente in un attimo. Il panico cesserà poco dopo sulla strada, quando il suo sguardo sarà attratto da un gruppo di ciclisti nel controluce del sole “con le loro ombre sull’asfalto come su un fiume di luce”. A quel punto, guardando  dentro il mirino, si accorge con stupore che “era cessato il frastuono, la fuga insensata, il tonfo del sangue alle tempie”.

           “Sconfinamenti” diventa allora un bellissimo titolo nella sua nettezza, perché tutti questi viaggi nell’immagine e nella parola diventano la ricerca dell’altro e dell’altrove, il desiderio di uscire dai confini, di entrare in territori mai visti vivendoli, oltrepassandosi, rappresentandoli. 

Tano Siracusa. Sconfinamenti. Prefazione di Alfonso Maurizio Iacono. Antìpodes, Palermo 2023. £ 12,00         

     

 

 

 

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