Nel mondo meraviglioso e magico della pittura la materia
segue sempre le oscillazioni dello spirito, così
che questa
decade si sfrolla e assume l’aspetto torbido
delle sostanze
impure, allorquando quello perde forza e
profondità; aumenta
invece di bellezza, e brilla e si complica
sapientemente nel suo
ordito, quando lo spirito s’innalza, e della
vita e del mondo
abbraccia una parte più vasta, e più
profondamente s’addentra
nel senso eterno e ineffabilmente lirico degli
esseri e delle cose.”
(G. De Chirico, Pro technica oratio) (1)
di Davide Pugnana
Alex Folla appartiene a quella rara categoria di artisti che chiedono di essere guardati. Può sembrare un paradosso, eppure fin dagli esordi - esordi ancora vicini e pulsanti per il rapido giro di anni nei quali si è consumato il suo romanzo di formazione - l’opera di Folla recava in sé il desiderio di essere verificata nello stile e nella materia; nella tenuta delle soluzioni formali; nello splendore della composizione e nei soggetti di un’iconografia rovesciata ad abbracciare l’intera tradizione, nell’intento di rivisitare, senza vezzi letterari e accademici, sia la lezione dei maestri che il repertorio dei possibili figurativi. In questo senso, Folla è pittore che ha avuto chiara da subito la cifra della sua vocazione e non possiamo cogliere fino in fondo il nucleo concettuale e stilistico dell’ultima produzione se non sondiamo con piglio sistematico le prove d’esordio.
Alex Folla appartiene a quella rara categoria di artisti che chiedono di essere guardati. Può sembrare un paradosso, eppure fin dagli esordi - esordi ancora vicini e pulsanti per il rapido giro di anni nei quali si è consumato il suo romanzo di formazione - l’opera di Folla recava in sé il desiderio di essere verificata nello stile e nella materia; nella tenuta delle soluzioni formali; nello splendore della composizione e nei soggetti di un’iconografia rovesciata ad abbracciare l’intera tradizione, nell’intento di rivisitare, senza vezzi letterari e accademici, sia la lezione dei maestri che il repertorio dei possibili figurativi. In questo senso, Folla è pittore che ha avuto chiara da subito la cifra della sua vocazione e non possiamo cogliere fino in fondo il nucleo concettuale e stilistico dell’ultima produzione se non sondiamo con piglio sistematico le prove d’esordio.
Occorre però, fin sulla soglia, delimitare il campo. Le note
che seguono sono lontane dal voler restituire un quadro complessivo della
ricerca pittorica di Alex Folla. Esse non sono che glosse sparse, suscettibili
di ripensamenti e di ampliamenti, depositate in margine ad una produzione in
fieri i cui sviluppi son lungi dal mostrarsi docili ad un immediato
addomesticamento storico-critico. Ma è pur vero che, tra le buone maniere dell’interpretazione,
figura quel galateo che raccomanda di aver gettato almeno uno sguardo d’insieme
sull’intera produzione dell’artista.
Se sfogliamo il catalogo generale di Folla e ci soffermiamo
a considerare il primo tempo della sua produzione figurativa ci vengono
incontro soggetti sacri e profani: scorrono negli occhi gli eroi della
mitologia antica e dell’epica biblica, prevalentemente declinate al maschile. L’impressione
è simile a quella che riceveremo se percorressimo il corridoio di una galleria
popolata da David e da Ares, da Dioniso e da Sansone, da Cronos e da Achille;
da San Giovanni Battista e da San Bartolomeo, da San Gerolamo nello studio e
dal ladrone deposto. C’è in queste tele un’ostinazione ad imparare, una
versatilità nell’esercizio delle tecniche (Folla pratica anche l’incisione e l’affresco)
e una maestria tale da farci dimenticare la giovane età dell’artista. Ci
sorprendiamo a pensare: “Ma siamo certi che si tratti di un periodo di
apprendistato?” Sembra che Folla padroneggi senza sforzo i problemi di fondo
con i quali ogni giovane artista figurativo si trova a dover fare i conti: il
disegno del corpo e l’anatomia; l’impostazione della figura nello spazio; la
resa tattile delle trasparenze del carnato e l’uso delle velature; le
sottigliezze fisiognomiche nel dettato del viso e delle mani (guardiamo al rictus
del Matto, alla smorfia di Cronos, agli occhi stralunati e
allo spasmo delle mani nell’Idiota); i pesi compositivi della scena
rispetto al senso d’insieme e al dettaglio; e ancora: la regia narrativa dei
gesti e delle pose nelle quali rifluisce tutto un sistema simbolico; la tavolozza
accordata sul dosaggio dei timbri caldi coi neri e i bianchi (il leitmotiv
dei bellissimi rossi dei panneggi sui quali stacca la nota dei carnati); la
qualità della materia pittorica. Una tela come Isacco, ad esempio, ma
potremo trasceglierne altre, è un testo pittorico esemplare dell’unità di
coerenza stilistica conquistata da Folla nel giro di pochi anni.
Alla luce di quanto raccolto nelle prove d’esordio non è
difficile isolare gli elementi di continuità che intrecciano le conquiste
espressive delle opere eseguite tra il 2006 e il 2009 e le due ultime serie, Moth
e Unheimlich, realizzate a cavallo tra il 2010 e il 2013. Troviamo
una mappa di varianti e costanti. Smantellato l’apparato mitologico di
uomini e di eroi, ricco di riferimenti
culturali e di citazioni colte; assottigliate le modulazioni neocaravaggesche,
pur tuttavia risemantizzando l’ombra, come vedremo; sfilati i drappeggi rossi,
tirati a far da quinta agli scorci stupendi e alle pose sforzate del San
Bartolomeo o del gruppo innervato di nerborute tensioni del Sansone,
Folla scarnifica la sua iconografia riducendola a pochi oggetti
concentratissimi, calati in scenari nudi di cose e ridotti a umidi grembi. Così
sfrondato, il “canzoniere” figurativo di Folla si impernia sopra un unico,
costante, ossessivo nucleo tematico: il nudo. Fin dagli esordi, egli ha fatto
del corpo umano il centro assoluto della sua pittura. Ma Folla non l’ha
esplorato solo sulle tavole del Morelli o alla scuola di nudo dell’Accademia di
Belle Arti, copiando il modello dal vero. Lo ha studiato come insieme di unità
grammaticali minime da ricomporre in sintassi, imparando a compitare le singole
parti del corpo sulla “lingua morta” della scultura(2), sopra quelle radici greche arcaiche che
prendono avvio dalla solenne fissità dei Kouroi per sdipanarsi nel teorema
visivo policleteo, vero “primario del pensiero in figura”(3) senza il quale
sarebbe stata impossibile l’acquisizione di armonica scioltezza e fluidità di
movimento che permea le pose dell’Apoxiomenos, dell’Apollo Sauroctono,
dell’Hermes con Dioniso bambino, del Diadoumenos: testi plastici
ai quali Folla dedica una bellissima serie di equivalenze pittoriche.
Sono qui, insomma, le molle generative della sua poetica: in
questo ginnasio figurativo esperito in un torno d’anni serratissimo e
rimodellato sopra un materia interamente propria. L’humus che fa da
letto alla recente produzione è un impasto stratificato che accoglie e fa
convivere in sé più livelli: la rilettura dei modelli che Folla ha saputo
imitare non da copista o “citazionista” ma fino a dimenticarsene, ossia
sciogliendoli nel suo processo creativo, “investendosi del loro stile” e “mandandoli
nel sangue” come affermava Canova, piegando l’assimilato alla propria
personalità. Da qui, quel suo guardare a procedimenti e soluzioni espressive
tradizionali senza per questo contaminarsi coi loro cascami accademici,
uscendone anzi al momento giusto, per rientrarvi d’improvviso e rinnovarli. E
poi: gli studi sull’ombra e la luce; il senso architettonico della figura; la
tattilità e plasticità del dettato anatomico sculturale; il trattamento degli
sfondi rischiarati da una tenue luce. Non manca nulla al corredo di questo
pittore poco più che trentenne.
Rimane fuori un’ultima questione: lo scandalo di dipingere
bene, l’essere figurativi che
trascina con sé la sistematica esclusione di un certo tipo di figurazione
marchiata come “anacronistica”. Essere figurativi suonava ieri, e suona tutt’oggi,
come un’infamia da nascondere. Un tema sul quale è tornato più volte, negli
anni e in scritti di diversa occasione, Vittorio Sgarbi. Qui vorrei ricordare
soltanto un passaggio dedicato ad Hermann Albert: “Si sosteneva che non aveva
più senso, alla soglie del Duemila, fare arte come l’avevano fatta Piero della
Francesca e Caravaggio, che non era più tempo di antiquate mimésis, che
la mentalità moderna aveva cancellato la possibilità che si potesse dipingere o
scolpire per riprodurre fedelmente la natura. Si era riusciti perfino a
demonizzare il ‘mestiere’, ossia l’abilità tecnica di formazione tradizionale,
facendolo passare per virtuosismo vuoto e fatuo, bassa manualità artigianale da
contrapporre all’alta intellettualità volutamente ‘sgrammaticata’ dell’arte d’Avanguardia.
Chi voleva essere considerato artista, chi voleva essere ritenuto al passo con
i tempi, doveva non essere tecnicamente preparato, doveva non saper dipingere e
scolpire.”(4) La posizione di
Alex Folla nel quadrante dell’arte contemporanea non è lontana da quella
condizione di precarietà e di bilico, di minaccia della penombra, di
assenza/presenza che ancora Sgarbi descriveva mirabilmente in un saggio dal
titolo Arte segreta. Artista figurativo per intima appartenenza,
coraggioso e coerente nell’unire tecnica e concetto, fedele a non tradire il
suo pensiero pittorico: da un lato, Folla viene idealmente ad abitare la
sommersa “città sotterranea” nei cui confini si sono dati appuntamento “orgogliosi
e imperturbabili, artisti di sicuro talento”, dall’altro, sembra gli sia
toccato in sorte di completare quella piramide d’iceberg alla cui sommità
emersa Sgarbi collocava Balthus.(5)
È solo attraversando questo retaggio fche possiamo voltare
pagina e focalizzarci sulle due ultime serie pittoriche di Folla: Moth
(2010) e Unheimlich (2011-2013).
II
Immaginate, se non li conoscete nemmeno in riproduzione,
corpi macerati dall’ombra, lasciati fermentare in spazi nudi come il mosto al
fondo della botte, a contatto con il legno e l’umidità. Corpi gettati in un
grembo arcaico, affondati in un liquore trasparente. Corpi visitati da una luce
che sembra tagliarli di sguincio, da sottinsù o lateralmente, rilevandone la
crudezza della carne - un proliferare di escrescenze, pieghe, cascami, nodi,
piccole strozzature, bozzoli, graffiature, disseminate su tutta la complessa macchina
di ossa e muscoli che si disegna sottopelle e che possiamo frugare nelle fauci
della luce come fin dentro la forma ingoiata e resa innominabile dall’ombra più
cruda. Quelli di Folla sono corpi che si costruiscono e insieme si corrodono,
che “mostrano, nello stesso tempo, la durezza d’una pietra e la prensilità
sudaticcia e repellente di una bava, d’uno sputo uscito da un violento attacco
d’etisia clorofillica”(6). Corpi-albero, pelli-cortecce crivellate di minutissime
asperità che il gorgo d’ombra o il pungolo della luce lenticolarmente
setacciano. C’è una pazienza imbevuta di crudeltà nel ritrarre questo
campionario umano senza altra consolazione che il peso della carne. Una
tattilità epidermica che abbiamo quasi l’illusione di poter toccare, passandoci
sopra gli occhi come fossero mani.
C’è sempre, in Folla, un cercarsi del pensiero pittorico per
immagini: una radice di calibrato bilanciamento tra astrazione e figurazione.
In questa senso, noi possiamo guardare alle tele degli ultimi anni in balia
della sensazione di girarvi attorno, come faremo in presenza di una scultura a
tutto tondo. Improvvisamente sentiamo a quale grado di profondità i modelli
della statuaria greca abbiano lavorato in lui. Quel campeggiare sulla tela di
due o tre figure, articolate non tanto secondo la logica sequenza dei
fotogrammi, come verrebbe da dire, ma valorizzando la molteplicità dei punti di
vista, illuminate per esaltarne la plasticità volumetrica, ci riporta al tema
del “paragone” tra la pittura e la scultura sul quale disputavano gli artisti
tra manierismo e Barocco, ponendo al centro del loro interesse il dialogo tra i
due linguaggi (pensiamo al celebre Nano Morgante del Bronzino).
Ma
questo binomio ne trascina con sé un altro che tiene conto della compresenza di
due cicli e, quindi, di due visioni speculari. Per descriverne la
complementarietà e la frizione, credo possa tornare utile la metafora
filologica del recto e del verso, della faccia anteriore e
posteriore di un foglio o di una moneta. Ebbene, sul recto si dispongono
i nudi stanti visitati dalla luce che sopporta e accetta ciò che tocca, e non
teme i ventri scarniti come grembiuli con pieghe di pelle spessa, né le mani
sgraziate o la conta delle ossa tra i seni; scorre la luce sulle carni
disperatamente irritabili, traslucide, sensibili e le impregna, le sfiora
consapevole del bestiale e del divino. Ben piantati a terra e pausati dai vuoti
suggeriti dal buio, donne e uomini sono tuniche d’ombra che anelano a salire
verso la vietata regione luminosa. Pure strutture di carne che rinunciano all’ingombro
dell’identità biografica e, nell’assenza di nomi propri, si immolano per
incarnare un’idea, un simbolo. All’opposto, sul verso troviamo gli
stessi corpi, lo stesso carnaio robusto o prossimo al disfacimento trafitto da
campiture bianche, simili a crisalidi di calce e gesso che scalzano o tolgono
respiro al buio drammatico. Qui, sebbene i corpi trattengano nel carnato
qualcosa della rugosità lignea tesa eppure stremata che li ha visti macerare
nel buio immemore del loro sperdimento, l’effetto è di un’invasione di bianco
che penetra in quelle stesse carni per ostruirle; o per ridurle a frammento.
È in questo passaggio che si genera un rovesciamento
semantico. Mentre nel recto, si snoda il mondo ctonio dove le figure si
offrono nella loro calda caducità, gettate in una durata della quale noi
avvertiamo la fine imminente nelle scalfitture di una pelle prossima a cedere,
a disfarsi, a corrompersi; all’opposto, nel verso, l’irrompere abrasivo
della materia pittorica sbarra i corpi, li scheggia, suggerisce un morso
cromatico che, al lavoro erosivo della temporalità, sostituisce la
conservazione atemporale del ghiaccio. È la spinta del bianco sui nudi:
destrutturati da graffiature e sgocciolature, gli stessi corpi sembrano
soffocare: le bocche e le gole ostruite; le gambe e le spalle (s)fasciate o
disturbate dalle interferenze delle colature sulla partitura anatomica; il
fragile e disperato gesto delle mani, premute a spingere come ficcate dietro
uno specchio congelato. In una figurazione dove, fin dagli esordi del pittore,
tutti gli elementi promettevano di comporsi in unità affiorano crepe,
smottamenti, fratture, a sottendere la coscienza di squarci improvvisi che
possono aprirsi anche nelle costruzioni più sapienti della natura, come nel
congegno del corpo umano, creando buche di silenzi, afasie del segno. Folla
sembra condurci verso un’idea di pittura che intacca se stessa, sfibrandosi
dall’interno, esaurendosi, oppure costruendosi a strappi, a brani, frammentata
ed errante, votata alla deriva. Se nel recto della visione le immagini
rispondono ad un desiderio di risarcimento, ad una caducità monumentale,
nel verso questo lavorio incessante dell’umano subisce continue
trasgressioni, demolizioni di verità accettate. È vero, il recto e il verso
prolungano e allargano i circuiti della visione figurativa di Folla, ma, nel
contempo, sono squarci nella comunicazione. Alternanza di vuoti e di pieni.
Dissoluzioni e rinascite che alterano la logica discorsiva del pensiero
pittorico.
Questo procedere che avanza di notte in notte e di bagliore
in bagliore, questa batailleana “divinazione delle rovine stupendamente attese”(7), si rispecchia anche
a livello sostanziale, ossia nei titoli dei due cicli. Folla sceglie il lemma
freudiano unheimlich(8), che la lingua italiana può restituire in due modi:
come “il perturbante” e come “il sinistro”. Per quanto differenti, entrambe le
parole gravitano nel campo semantico del disturbo e dell’interferenza: evocano
il ronzio prossimo a bucare il silenzio; la chiacchiera inquietante e
straniera, che incrina e capovolge ciò che nella lingua quotidiana si configura
come normale. Cogliamo questo cortocircuito spiazzante in quell’anello di
congiunzione tra recto e verso che sono i disegni preparatori di
Folla alla serie Unheimlich. I corpi sono qui immagini che comunicano
negandosi, aprendosi(9) attraverso la ferita di una lacerazione che riunisce in sé la violenza
dello strappo e il consumarsi della combustione: le teste sono esplose, ignote;
le braccia e le schiene slabbrate da smagliature; sul bianco dello sfondo
sembrano ossidarsi iridescenze screziate di rossi, ocre, bruni, gialli. I corpi
sembrano votarsi alla distruzione.
Recto e verso vengono così a formare termini
precisi di una forma capace di far convivere una strana e quasi abnorme visione
che ha per supporto simbolico il richiamo al mondo degli insetti. Moth,
in inglese, significa falena: una specie singolare di farfalla che vive, a
differenza di altri lepidotteri, nella piega notturna della sua breve e fragile
esistenza. In un ordine simbolico, e, nel caso di Folla, iconografico, la
falena è l’inquieta creatura che accoglie su di sé due polarità: il presagio e
l’attrazione della morte e la ricerca e il possesso della luce. Come risolve in
figura questa duplice pulsionalità il pittore-entomologo? Come può la
rappresentazione pittorica dar corpo a un’immagine che abbia in sé la pretesa
di tenere unita la lacerazione tra vita e morte, utilizzando quel minimo
corpicino, vivo un’ora, che è la falena? La memoria corre al celebre testo
poetico di Miss Miller, analizzato da Jung nel Il canto della falena (10). In un’unica zampata
di versi a getto magmatico, la paziente di Jung fissa l’anelito estatico dell’insetto
al sole, la disperata aspirazione/tensione di un corpuscolo dotato di esili ali
verso un simbolo di potenza e sovranità il cui contatto d’amore è destinato, in
virtù della fatale sproporzione, a rovesciarsi nella distruzione. Il volo
portato dall’inquietudine erotica della falena verso la luce che
irresistibilmente la chiama è destinato a non avvenire mai. La falena spinge il
suo incandescente desiderio d’amore fin dentro la morte: sembra che nel suo
sacrificio voglia rischiarare, anche solo per la durata di un battito d’ali, i
sogni nutriti nel buio della sua crisalide. Anche le figure-falene di Folla
gettate a respirare nel buio sinistro sembrano tendere al contatto con una bava
di luce che le chiama da lontano, seducente nell’invasione di carezze sui corpi
caduchi. Non sanno che l’accesso all’ignoto avrà il prezzo di un
supplizio bianco sulla carne: il sigillo sacrificale che le trasformerà da
immagini in oggetti d’amore - in quel frammento di realtà materica, di noto
che, sebbene laceri il corpo e con ciò la vita, non potranno più abbandonare.
Alex Folla, io l’ho
detto da quando vidi per la prima volta una sua opera, col naso a pochi
centimetri dalla tela, quel pomeriggio di due anni fa alla Gestalt di
Claudio, ha trovato il noto materico incapace di barare; sbucciato fino
all’osso, fino al sangue, come sempre con artisti abituati a lavorare nel
sottopelle dell’esistenza col furore di schegge nella carne. Il recto e
il verso della pittura di Folla, Moth e Unheimlich,
antropomorfizzano due momenti della vita e del canto della falena; ma, allo
stesso tempo, trattengono nelle loro maglie un segreto inno alla pittura.
Proprio alla sua pittura potrebbero essere intonate le parole di Miss Miller: “dopo
aver ottenuto/ di captare un tuo raggio, morirò contenta,/ poiché per una volta
avrò contemplato nel suo splendore perfetto/ la sorgente della bellezza, del
calore e della vita.”
Note
(1) G. De Chirico, Pro
technica oratio, in Il meccanismo del pensiero. Critica, polemica,
autobiografia 1911-1943, Einaudi, Torino, 1985, p. 238
(2) L’espressione non rimanda
all’accezione negativa della funzione illustrativa o del “già fatto” in
scultura secondo l’uso di Arturo Martini; ma, al contrario, sfruttando la
felice intuizione del titolo, indica l’imprescindibile tirocinio dell’artista
figurativo. Nel caso di Folla può valere l’aforisma martiniano: “La sovranità
di un’arte deriva unicamente dal
completo possesso dei mezzi creativi; e per mezzi creativi non s’intenda l’abilità
dell’artista o i suoi strumenti di lavoro, ma il valore intrinseco di un
particolare linguaggio. Ne risulta evidente la schiavitù della scultura.” (A.
Martini, La scultura lingua morta e altri scritti, a cura di Elena
Pontiggia, Abscondita, Milano, 2001, p.34)
(3) Il concetto di “primario
del pensiero in figura” è stato elaborato da Flavio Caroli nel corso della sua
ricerca storiografica e indica quell’insieme di opere-chiave, di archetipi
visivi, sulle quali si è costruito l’immaginario visivo occidentale: “Ho
dedicato il lavoro di tutta la mia vita al tentativo di identificare la chiavi
fondamentali, i ‘primari’, del ‘pensiero in figura’ occidentale. Il ‘pensiero
in figura’ coincide - sempre - con il pensiero senza aggettivi di una
determinata civiltà; ne rappresenta l’aspetto che deriva dal mondo del
visibile; accompagna il pensiero filosofico-scientifico, e spesso lo anticipa.”
(F.Caroli, Il volto e l’anima della natura, Mondadori, Milano,
2009, p.3)
(4) V. Sgarbi, Hermann
Albert o della classicità ritrovata, Galleria Poggiali & Forconi, p.9
(5) “Così è sorta una città
sotterranea, dove si sono rifugiati, orgogliosi e imperturbabili, artisti di
sicuro talento, e dove giungono, come naufraghi sopra una terra insperata,
alcuni temerari che non hanno piegato le vele nella direzione del vento favorevole
e hanno affrontato tempesta e bonaccia per arrivare a un luogo di cui avevano
sentito parlare, ma della cui esistenza non erano neppure certi fino in fondo.
Si è trattato per molti, fin dalla prima generazione di questo secolo, di
scavalcare le avanguardie, di attraversarle ignorandole, di riagganciarsi all’ultimo
gesto della mano con il pennello o con la pietra, di ricominciare dove il
percorso si era interrotto. Per molti è
stata una testarda coerenza, una polemica ragione di vita, nell’isolamento e nel
silenzio; per altri, e soprattutto ora, è una dimostrazione di riscatto. C’è un
intero arcipelago, ancora in buona parte sommerso o inesplorato, di cui l’unico
iceberg emerso, universale e quasi sprezzante nell’affermazione di un valore
non comprabile con la moneta corrente, è Balthus. Al suo fianco e nella sua
direzione o nell’opposta, ma con lo stesso metodo di paziente e pensata
elaborazione dell’immagine, ci sono altri, anche grandi; e non saprei dirvi
dove poterli incontrare, se non nei loro studi, in qualche rara mostra: certo
non nei templi consacrati all’arte.” (V.Sgarbi, Arte segreta, in La
stanza dipinta. Saggi sull’arte contemporanea, Bompiani, Milano, 2012,
pp.7-8)
(6) G. Testori, Grunewald,
la bestemmia e il trionfo, in Grunewald, Classici dell’Arte Rizzoli,
p.6
(7) “Il genio poetico non è il
dono verbale (il dono verbale è necessario, poiché si tratta di parole, ma
spesso fuorvia), è la divinazione delle rovine segretamente attese, affinché
tante cose rapprese si disfino, si perdano, comunichino. Nulla è più raro.
Quell’istinto che indovina e lo fa a colpo sicuro esige ancora da chi lo
detiene, il silenzio, la solitudine: e più ispira e tanto più crudelmente
isola.” (G. Bataille, Digressione sulla poesia e Marcel Proust, in L’esperienza
interiore, Edizioni Dedalo, Bari, 2002, pp.195-219)
(8) “Dirò subito che l’una o l’altra
via conducono allo stesso risultato: il perturbante rientra in un genere di
spavento che si riferisce a cose da lungo tempo conosciute e familiari. […] La
parola tedesca unheimlich ovviamente è l’opposto di heimlich e di
heimisch [casalingo, familiare, nativo], ossia l’opposto di ciò che è
abituale, per cui tenderemmo a dedurne che una cosa ‘perturbante’ spaventa
proprio per non essere nota e consueta. […] In generale vediamo che la
parola heimlich non è priva di ambiguità, appartenendo a due ordini di
idee, che, anche se non contraddittorie, sono tuttavia assai diverse: da una
parte significa ciò che è familiare e piacevole e, dall’altra, ciò che è
nascosto e tenuto celato.” (S.Freud, Il perturbante, in appendice a Totem
e tabù, introduzione di Flavio Manieri, Newton Compton Editori, Roma 1980,
pp.245-250)
(9) Sul concetto di “immagine
aperta” vedi G.Didi-Huberman, L’Immagine aperta…
(10) La falena al sole
Aspiravo a te sin dal primo
risveglio della mia coscienza di vermiciattolo,
i miei sogni ti appartenevano
tutti quand’ero crisalide.
Spesso miriadi della mia
specie perdono la vita
contro una debole scintilla
che tu hai emanata.
ancora un’ora e la mia povera
vita se ne sarà andata;
ma il mio ultimo sforzo come
il mio primo desiderio non avranno
altro intento che di
accostarmi alla tua gloria; allora, dopo aver attenuto
di captare un tuo raggio,
morirò contenta,
poiché una volta avrò
contemplato nel suo splendore perfetto
la sorgente della bellezza,
del calore, della vita.
(testo di Miss Miller, in
C.G.Jung, Il canto della falena, in Simboli della trasformazione.
Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia, Bollati Boringhieri,
Torino, 1970, p.88)
La mostra personale di Alex
Folla, Lepidoptera sarà aperta dal 18 giugno al 2 luglio, a Villa
Bertelli, Forte dei Marmi, via Giuseppe Mazzini 200. Presentazione mostra e
catalogo, sabato 21 giugno, ore 18.
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