“Il
lato oscuro della storia” potrebbe essere
il sottotitolo del libro appena uscito per le edizioni ETS, Le
donzelline – Donne d’amore nell’Italia rinascimentale di Luciano Luciani.
Il
libro, ci dice l’Autore, nasce da un fortuito incontro con la biografia di una
poetessa rinascimentale che dell’arte del sesso aveva fatto la propria
principale attività, appena nobilitata, sembra, da un parallelo esercizio
dell’arte letteraria nella quale, però, non si mostrò tuttavia all’altezza
della prima. In contemporanea, le rivelazioni sulle esuberanze di un nostro ex
ex ex premier: dunque la storia si ripete, o meglio Nihil sub sole novi, è l’osservazione che affiora spontanea alla
mente dell’Autore, insieme con il desiderio di approfondire un argomento spesso
taciuto e volutamente dimenticato, e invece interessante nella storia del
costume e della vita quotidiana dei secoli passati.
E
dunque Luciani passa in rassegna vari usi e costumi dell’erotismo
cinquecentesco, a partire da quelli che si praticavano nelle cosiddette stufe, ovvero i bagni pubblici, ufficialmente stabilimenti termali, che
godevano di una fama equivoca ed erano gestiti da professioniste del sesso
ormai troppo anziane per esercitare la professione attiva: ne riconobbe la
funzione come luoghi di convegni amorosi già Boccaccio nel Decamerone, nella novella in cui si racconta la storia di
Iancofiore, sagace avventuriera ciciliana,
e Salabaetto, ingenuo mercante fiorentino di pannilana.
Al
lupanare, o ad altri luoghi simili sia pure coperti da un velo d’ipocrisia,
come appunto le stufe, si riconosceva
comunque un’importante utilità sociale, come quella di porre un vincolo alla
violenza contro le donne e un freno ad una sregolata attività sessuale
considerata peccaminosa anche all’interno del matrimonio se non finalizzata
alla procreazione.
La
stessa Chiesa cattolica, pur contraria ad ogni manifestazione sessuale, che era
considerata immorale e viziosa, tollerava in qualche misura il sesso mercenario,
riconoscendo la funzione di male minore alla
prostituzione e alle sue protagoniste, soprattutto se concentrate nel lupanare,
regolato e controllato.
Gli
uomini di Chiesa del resto non erano estranei ai richiami della carne e al
vizio della lussuria tanto che la maggior parte di loro non rinunciava a ricorrere
ai servizi delle cortigiane, come ricordano i cronisti dell’epoca: non per
niente nella Roma rinascimentale, grazie alla presenza di molti celibi nella
città sede della corte pontificia (oltre il 60%), la prostituzione era
un’attività fiorente e prospera. Accanto a Roma, anche Firenze e Venezia, potevano farsi vanto di un simile
florido commercio, che Luciani ci fa conoscere con una ben documentata analisi
delle fonti, quali cronache, detti e storie popolari, epistole, opere
letterarie. Non mancano approfondimenti e interessanti notazioni sul resto
d’Italia: Genova, che obbligava le prostitute a vestirsi di giallo per distinguersi
dalle donne per bene; Viterbo, che conobbe il primo tentativo di
regolamentazione delle prostituzione nel XIII secolo; Perugia, che aveva
istituito una tassa per sostenere le spese del postribolo; Lucca, a cui va
probabilmente il primato di avere istituzionalizzato la prostituzione dopo la
terribile pestilenza del 1348; Pistoia, in cui il lupanare era concesso
all’incanto e aveva sede in luoghi diversi a discrezione dell’appaltatore.
Ma
chi erano le donzelline del
Rinascimento? Alcune di loro, quelle frequentate da letterati e uomini colti
dell’epoca, le cosiddette cortigiane oneste,
secondo la definizione che ne diede Giovanni Burcardo, maestro di cerimonie di
Alessandro VI Borgia, erano raffinate ed eleganti tanto nel vestire quanto
nella conversazione: una di loro, secondo la descrizione che ne fece l’Aretino,
conosceva a memoria Petrarca e Boccaccio “e infiniti e bei versi latini di
Virgilio e d’Orazio e d’Ovidio e di mille altri autori”.
Luciani
si sofferma a raccontare le vicende umane di tre delle più famose e celebrate
“donne di piacere” dell’epoca: Tullia d’Aragona, bellissima incantatrice grazie
all’aspetto fisico, alla voce morbida e ben intonata, e alla capacità di fare
versi, che riuscì a strappare la lode di “vera regina” perfino a una lingua sferzante
come quella dell’Aretino; Veronica Franco, autrice di uno dei rari canzonieri
femminili del Cinquecento, animatrice del più raffinato salotto letterario di
Venezia, più volte ritratta dal Tintoretto; Imperia, la più famosa cortigiana
del Rinascimento romano, morta suicida perché innamorata di un nobile che non
poteva sposare in quanto l’uomo era già legittimamente coniugato.
Accanto
a queste cortigiane di alto livello sociale e intellettuale, un esercito di
donne del popolo – lavandaie, cucitrici, tessitrici, fantesche, ambulanti – che
non riuscivano a vivere del loro lavoro e cercavano clienti tra gli strati più
infimi della popolazione per integrare i loro miseri guadagni, denominate le
prostitute “da candela” in quanto indicavano la durata della loro prestazione
con una tacca incisa nella cera, che corrispondeva a mezz’ora circa.
La
storia della prostituzione in età rinascimentale che Luciani ci racconta con
dovizia di riferimenti letterari (facendoci scoprire tra l’altro come Niccolò
Machiavelli fosse, oltre che il fondatore della scienza politica, anche un
insaziabile frequentatore di bordelli) conferma, se ce ne fosse bisogno, la
soggezione femminile al potere e al desiderio dell’uomo, sia nelle classi colte
che in quelle popolari: e le vicende delle donne di piacere, anche quando non
si concludono tragicamente secondo una delle più diffuse credenze dell’epoca,
hanno, nel migliore dei casi, connotazioni tristi e malinconiche.
Alla
fine, questo esteso e peculiare commercio fu sopraffatto definitivamente dalla
diffusione del “mal francese”. Originaria del Nuovo Mondo, propagatasi in tutta
Europa dapprima grazie ai marinai, poi
ai soldati degli innumerevoli conflitti che insanguinavano il vecchio
continente, la nuova peste del XVI secolo prese il nome di sifilide da un’opera del medico umanista Gerolamo
Fracastoro, intitolata Syphilis sive de
morbo gallico libri tres, in cui il protagonista, un giovane pastore di
nome Sifilo, viene punito con questa nuova orrenda malattia per aver offeso il
dio Apollo.
La
diffusione della sifilide, che colpì tutti gli strati della popolazione e all’inizio soprattutto le fasce più ricche
e benestanti, determinò l’idea della malattia come punizione divina, mentre
crebbe l’insofferenza verso la figura della prostituta che fu sempre più
oggetto di misure vessatorie e discriminanti.
Lo
spirito della Controriforma fece il resto: in ogni campo del sapere e del
costume si dispiegò l’offensiva della cultura cattolica. Luciani tratta con un
vero e proprio pathos la decadenza della grande stagione culturale del
Rinascimento italiano sotto i colpi dell’Inquisizione e della diffusione del
cattolicesimo tridentino. E per le “donzelline” il destino era segnato: “nella ‘casa
delle ragazze’ si installò durevolmente il boia”, scrive Luciani citando J.
Rossiaud. E così l’Europa fu intossicata per oltre due secoli da cacciatori di
streghe, di eretici e lussuriosi, che per la coscienza europea dell’epoca appartenevano
allo stesso mondo sacrilego e peccaminoso.
Un
libro, dunque, di grande interesse ed anche di profonda umanità, quello di
Luciani, in cui le vicende scandalose e dimenticate delle donzelline del
Cinquecento vengono presentate sapientemente nel loro intreccio con la storia
politica e del costume, senza moralismi, ma semmai restituendo dignità a
persone e personaggi, all’insegna di quel detto che l’Autore stesso ricorda
all’inizio del libro: homo sum: nihil humani a me alienum puto.
Luciano Luciani, Le donzelline Donne d’amore nell’Italia rinascimentale, collana
Obliqui, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 130. Euro 12,00
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