di Gianni Quilici
Una foto può
essere costruita, cioè preparata, confezionata, recitata.
La bellezza e
forse la più autentica specificità della fotografia è essere là dove c’è il
fatto, l’evento e coglierlo. Come racconto o come scatto che meglio lo
simbolizzi…
James Nachtwey è il più famoso e forse più significativo
fotografo di guerra e dintorni. Alcune delle sue foto sono così terribili, che
sono (per me) inguardabili e forse discutibili.
E tuttavia, oltre
ad essere un fotoreporter che ha rischiato la vita tante volte, è uno di quei
fotografi, che meglio ha rappresentato la seconda metà del ‘900 del nostro
Pianeta.
Prendiamo questa
foto.
E’ una foto
poetica, di una poesia minimalista.
Poteva farla
chiunque?
Intanto bisognava
esserci, come scrivevo prima.
In secondo luogo cogliere,
come Nachtwey ha colto, la donna inginocchiata e raccolta proprio nel momento
in cui ha poggiato la mano sulla tomba, una nuda pietra.
Infine non dare,
come Nachtwey non ha dato, altro orizzonte all’immagine, se non le tombe,
perché non ci fosse altro elemento che potesse deconcentrare lo sguardo da
questo.
Perché la poesia,
il punctum barthesiano, nasce da questo rapporto: la donna con il burka di una
paradossale bellezza quasi classica, che la manifesta tuttavia senza volto, anonima, a sottolineare una condizione di schiavitù; e la tomba che
racchiude questo dolore con la nuda desolazione del luogo di povere pietre, rendendo ancora più diretto e forse più vero, senza fronzoli, il rapporto tra il
corpo vivente della donna ( e di noi che guardiamo) e la materia… la pietra
nuda, la terra secca.
James Nachtwey. Donna piange una vittima di
un attacco missilistico. Kabul 1996.
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