di Davide Pugnana
L'ultimo Roland Barthes, quello che allunga la mano verso Proust per far chiarezza nella sua vita; quello delle riflessioni testamentarie de La camera chiara"; quello del diario struggente tenuto coraggiosamente aperto sul lutto materno e, lavorando in esso, sul tempo ritrovato del ritorno alla matrice d'origine: quel Barthes, che scava a mani nude nella ferita di orfanità "dove lei non è più" - ecco, proprio in quelle sue pagine estreme, troviamo un'esclusiva, totalizzante pienezza di senso che trasforma la riflessione sulla morte in risposta di vita e fa del massimo di chiusura biologica il culmine dell'apertura umana.
Ogni volta che lo rileggo mi commuove l'anello di congiunzione che l'ultimo Barthes è riuscito a cucire tra costruzione teorica e dolorosa sostanza esistenziale: la "puntura" percettiva raccolta dal semiologo perfora l'immagine e attraversa l'ordine logico dello "studium" per raggiungere gli oggetti del suo mondo interno. Eccolo: il viaggio al fondo della vera conoscenza. È nella dinamica di questo processo che lo sento veramente proustiano: non tanto la memoria involontaria come risposta obliqua e alogica all' "intelligenza" del tempo matematico; ma il riverbero intermittente capace di dischiudere quello che - scrive Proust stesso nel centro de Le Temps retrouvé - «resta chiuso come in mille sigillate giare ciascuna delle quali è riempita di cose d'un colore, d'un odore, d'una temperatura assolutamente differenti; senza contare che tali giare disposte lungo la cresta dei nostri anni durante i quali non abbiamo smesso di mutare, sia pur soltanto nei nostri sogni o pensieri,sono situate a quote molto diverse, e ci dànno la sensazione di atmosfere singolarmente variate.» Bello riuscire a fissare un "punctum"/kairos che duri e resista oltre l'attimo.
foto di Ferdinando Scianna |
«Tuttavia, se si tratta di una persona - e non più di una cosa - l'evidenza della Fotografia assume tutt'altro rilievo. Il fatto di vedere fotografati una bottiglia, un mazzo di fiori, una gallina, un palazzo, non tira in ballo che la realtà. Ma se invece si tratta di un corpo, d'un volto, e quel che è più, come spesso accade, del corpo e del volto della persona amata? Dal momento che la Fotografia autentifica l'esistenza della tale persona, io voglio ritrovarla globalmente, ossia in essenza, 'come se stessa', al di là di una semplice somiglianza, anagrafica o ereditaria che sia. [...] L'aria di un volto non è scomponibile. [...] L'aria non è un dato schematico, intellettuale, come lo è invece una silhouette. E non è neppure una semplice analogia - per quanto spinta possa essere - come lo è la 'somiglianza'. No, l'aria è quella cosa esorbitante che si trasmette dal corpo all'anima [...] Scorrevo così la foto di mia madre seguendo una via iniziatica che mi portava all'esclamazione, fine di ogni linguaggio, 'È esattamente questo!': [...] la Fotografia del Giardino d'Inverno, in cui vado ben oltre il semplice riconoscimento: in cui la ritrovo: brusco risveglio, al di fuori della 'somiglianza', satori in cui le parole vengono a mancare, evidenza rara, forse unica del 'Così, esattamente così, e niente di più'. [...] Tutte le foto di mia madre che passavo in rivista erano un po' come maschere; all'ultima foto, improvvisamente, la maschera scompariva: restava un'anima, senza età ma non al di fuori del tempo, dal momento che quell'aria era quella che vedevo, consustanziale al suo volto, ogni giorno della sua lunga vita.»
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