di Gianni Quilici
L’impressione finale: trovarmi di fronte ad
un racconto perfetto.
Uno
scenario desolante: “una piccola valle, profonda, sabbiosa, isolata da ogni
parte da piccoli pendii scoscesi e brulli”.
Uno
strumento di tortura tanto atroce quanto descritto appassionatamente da uno dei
protagonisti.
Tre
(quattro) personaggi: realistici e al tempo stesso simbolici.
L’ufficiale:
il carnefice, incarnazione zelante di
una (in)giustizia totalitaria, che appare, tuttavia, in crisi nella sua inconsapevole
spietatezza.
Il
condannato: “ mezzo inebetito come un cane sottomesso, che si poteva lasciar
libero e che bastava chiamarlo con un fischio perché accorresse”, che deve pagare la colpa, senza alcuna
possibile difesa.
L’esploratore:
il giudice di fatto (senza volerlo assolutamente essere), tuttavia impotente.
Nello
sviluppo del racconto non c’è
separazione tra la dinamica psicologica che i personaggi, nella loro
interazione, esprimono e il significato emblematico che essi rappresentano,
senza che ciò diventi ideologia ossificata.
Kafka
riesce, infatti, a creare una sorta di thriller dialettico di notevole spessore
simbolico, in cui i ruoli iniziali dei tre protagonisti si capovolgono o comunque
mutano, senza che niente cambi.
L’ufficiale
è la spietatezza, che ha profondamente introiettato dal precedente comandante, di cui
magnifica l’invenzione della macchina di tortura, e “l’ordinamento di tutta la
colonia praticamente perfetta”. Si sente, infatti, innocentemente giusto nel
ruolo di torturatore efferato. Quando intuisce che ormai è sconfitto e con lui
quel mondo con il quale si è identificato, rivolge contro se stesso il
diabolico strumento.
Il
condannato (e con lui il soldato) è la vittima che potrebbe, allo stesso modo,
diventare carnefice o comunque complice,
considerando quanto sia privo di sentimento nei confronti di ciò che sta
succedendo.
L’esploratore
è la coscienza, lo sguardo morale. Quasi sempre silenzioso, apparentemente
distante, quando parla le sue sono parole nette di condanna. E inoltre, a
differenza del condannato e del soldato, prova compassione per la morte atroce
a cui l’ufficiale si sottopone.
La
grandezza di Kafka risalta non soltanto nella normalità con cui disegna questa
ferocia, ma anche perché non giudica, lascia immaginare.
Il
racconto finisce, infatti con l’esploratore che se ne va quasi fuggendo. Fugge
da cosa? Da una “colonia penale”, che muterà senza mutare. Mentre se ne va
incontra i “lavoratori del porto, uomini forti, gente povera, umiliata”, ‘non
un’alternativa si potrebbe pensare, mentre invece incombe l’ombra del vecchio
comandante.
E
dove va? Non lo sappiamo, sappiamo soltanto che impedisce al soldato e al
condannato di saltare dentro la barca,
da dove si sta allontanando, minacciandoli con una pesante gomena piena
di nodi. Se ne va via solo senza che sappiamo cosa ci sia oltre.
Franz
Kafka. Tutti i racconti. Traduzione di Rodolfo Paoli. Mondadori
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