di Bartolomeo Di Monaco
da "Leggiamo insieme gli Scrittori Lucchesi" Volume 2
Ci accorgiamo subito che sarà una storia di intense vibrazioni. Le prime che avvertiamo, restano nell’aria al pari di quelle emesse da un tasto di pianoforte, poi da un altro e così via. Suoni unici, il cui effetto, però, si prolunga fino a spegnersi sommessamente ed annullarsi nel momento in cui comincia l’altra vibrazione, lenta ad esaurirsi anch’essa per confluire nella successiva. Si sta costruendo qualcosa di speciale, dunque, una catena che non è solo musica di sentimento e di poesia, ma anche d’immagini che si formano lungo l’arco della stessa vibrazione.
Il
protagonista, che narra in prima persona, ci sta consegnando, suddivisa in
dieci giornate (i dieci tasti di un pianoforte personale, o le dieci giornate
del “Decameron” di Giovanni Boccaccio) la sua vita, anche la più riservata,
intima. Ad ogni tasto che preme è lui che s’invola e colma di sé, del suo
spirito, immagini e suoni.
La
scrittura è una partitura. Si potrebbe pensare, vista la consuetudine
dell’autore con il cinema, anche a una sceneggiatura, ma sarebbe sbagliato. La
differenza sta nella poesia che ogni vibrazione irradia attorno a sé. È una
storia privata, interiore, come privata e interiore è sempre la poesia: “Una
sera, in un angolo del pianerottolo al buio, le mordo la gola, le infilo le
mani sotto la gonna; lei smania facendo frullare la massa di capelli
selvaggi…”; “Dall’alto la città mi inebria. Guardo tetti che si sovrappongono,
campanili di marmo e di mattoncino, la Torre Guinigi snella e alberata e mi
sento così vasto e leggero come se fossi aria, che si spande padrona dello
spazio.”.
Non ci
sono parole inutili o vuote in questa scrittura. L’uomo che ne esce fuori è
rastremato, ne vediamo lo scheletro ma anche la formazione del pensiero, le
scariche elettriche che lo sollecitano al movimento e alla riflessione: “La
notte è dolce. Due ragazze ridono come matte solitarie in via Fillungo. In
Piazza S. Michele non c’è nessuno. Mi siedo sui gradini della statua del
Burlamacchi, tiro fuori un foglietto e mi sdraio. La luna troneggia piena
sbucando da Palazzo Pretorio. Mi lascio corteggiare.”. Il protagonista è un
uomo impegnato in politica e nel sociale; le sue idee maturano in una realtà
refrattaria, che desidera forzare. Scaccia l’inedia e la rassegnazione. La
donna vi assume il ruolo di un riferimento appagatore per avviare un nuovo
inizio: “Così decido: farò il vuoto mentale.”; “Mi rimescola i sensi quando
percepisco la possibilità di inventarmi.”. Gli incontri con le donne hanno
quasi sempre una carica erotica che l’autore sa esprimere con efficacia e
controllo assoluto; si veda, come esempio, l’incontro con la donna separata,
nella seconda delle dieci giornate. Ma ne avremo altre, e l’insieme di esse
contribuirà a dare del protagonista l’immagine di una ossessiva e mai appagata
inquietudine.
Spegnimenti
e ricariche, accondiscenza e ribellione, voglia sessuale improvvisa e
spasmodica si alternano dando vitalità ad un personaggio in cerca di una
identità che non riesce a trovare: è nel bientinese, in una zona frequentata da
prostitute: “Passo via con lo sguardo. Me lo cerco sopra i pantaloni. Lo
abbranco. È un desiderio fresco, quasi esaltato.”; “Corro in bici pigiando sui
pedali così accanitamente che i denti mi spuntano fuori e scricchiolano come la
ruota di un carro sulla pietra, il cielo è blu notte e piango.”. Anche la notte
e il buio sono elementi svelatori e formativi. Come la paura per un futuro che
non si conosce: “Ho paura del mio futuro.”. La bicicletta con cui va in giro ad
osservare è simile a un sensore, come la lingua tattile di un basilisco o di un
camaleonte: “Così, pedalando in scioltezza, vedo come se fosse la prima volta i
Fossi.”; “pigio sui pedali, sento che la città è grande, più grande di quanto
possa immaginare e che il mondo per me è immenso e che io non voglio, non devo
pormi più limiti…”.
Si ha la
visione di una lotta titanica: da una parte una società cristallizzata (si veda
la sterile e caotica supplenza nella scuola), dall’altra un desiderio quasi
satanico di ribellione, di rivolta che si aggrappa ad ogni occasione,
l’aggredisce, come per sfoderarla e scarnificarne il contenuto, unghiarla e
graffiarla fino a farla sanguinare. In certi momenti la scrittura si fa
accelerata come un batticuore; il protagonista sembra rimanere soffocato dalla
propria furia; la stessa donna verso la quale ogni tanto trova rifugio e
acquietamento, si fa muro di fronte al suo desiderio di libertà: “Mi vedo
inginocchiato sul pavimento, un foglio di carta per terra, un pennarello blu in
mano, che scrivo… Sarà l’inizio della svolta, il mio dover essere, attaccherò
un manifesto grande sulla parete dello studio come propellente per farci, ogni
giorno, i conti.”. È la stessa rabbia rivoluzionaria che attanagliò tra la fine
dell’Ottocento e i primi del Novecento i francesi Lautréamont, Radiguet,
Verlaine, Rimbaud, Baudelaire ed una serie di epigoni che, rifiutando il mondo,
lo facevano soffrire per distruggerlo.
L’analisi
di Quilici, seppure formalmente racconti una storia di disadattamento, nel suo
profondo sta indagando per una rivincita che annienti l’avversario e da questa
sua morte si rimodelli il tutto, sia in senso materiale che spirituale.
L’atmosfera è impregnata volontariamente di una caligine che ne smorza la
lucentezza; i personaggi sono in simbiosi con essa: insicuri, enigmatici,
disorientati, paurosi.
Nel libro
manca l’amore; vi si incontrano continue sfuriate di sentimenti di ogni genere,
compresi quelli erotici, ma dell’amore non vi è nemmeno l’ombra. Forse, ogni
tanto, un po’ di trattenuta nostalgia: “Sulla macchina penso che avrei voluto
accarezzarle i capelli, poi prenderli e tirarli, mentre le mordevo il collo
sogghignando.”. La poesia, ad esempio, si avverte nell’aria, ma l’amore no, è
assente; non vi avrebbe potuto trovare, infatti, la sua collocazione e il suo senso.
Vincono l’impegno, dinamico, forte e nello stesso tempo delusivo, e la
rabbia.
Non sono
molti, oggi, gli scrittori che sanno farlo con l’equilibrio di una
consapevolezza pervicace ma al contempo irredimibile. Nel fuoco che sempre più
si ravviva e si espande noi troviamo l’embrione di una rinascita, la fisionomia
di un nuovo che non riesce a prendere forma ed alimenta il disordine e lo
scuotimento della fiamma. Una donna (ancora la donna), Eloisa, ne diventa la
raffigurazione più embrionale e significativa: “L’immagine di Eloisa mi morde
ossessivamente.”. Come pure la scuola, la quale assume la forma magmatica di
una ebollizione continuamente alimentata e destinata a non finire, così come lo
è la nostra indomabile, effervescente e incontrollabile realtà. Le riunioni
nella sede del Pci (assisteremo anche allo smarrimento provato tra i militanti
in occasione della svolta occhettiana della Bolognina, nel 1989)
rappresentano un anelito che la paura frena e fossilizza. Tutto si muove,
tutto fermenta, tutto appare come l’inizio di una nuova creazione, ma qualcosa
manca: la mano, o l’idea, creatrice e salvifica. L’uomo è impotente di fronte
ad una realtà che lo sovrasta, che è più forte e le cui ragioni di esistere
sono sconosciute e dunque insidiose e aggressive. È una nuova lotta tra David e
Golia, in cui a vincere questa volta sarà Golia.
L’autore
dovrebbe soffrire per la disastrosa situazione che ci para davanti, e qui sta
la sua bravura coadiuvata da una indiscutibile lucidità: egli non soffre,
poiché si sforza di credere nella sua ricerca e nella sua sperimentazione, e
dunque decide di cospargere di una raffinata e leggera ironia il disordine
intellettuale e quello materiale che si spartiscono la realtà. Egli propone, e
resta ad osservare. Conosce le reazioni e le risposte. Non insiste più di
tanto, le ha già introiettate e sorride nel constatare che la sua
previsione era esatta fin nei minimi particolari. Allora, la sua è una resa?
No, è una consegna, come la letteratura maledetta ci consegnò in quel tempo la
sua rivolta e la sua disperazione senza alcuna pretesa ma soddisfatta del
messaggio lanciato alla posterità: “Scendo le scale del Pci devitalizzato. (…)
Cammino a testa bassa. Le mie proposte sono da qualcuno guardate con interesse,
ma, più spesso, respinte con fastidio, perfino con astio. Colpa mia. Non riesco
a trasmettere sicurezza e concretezza. (…) Dovrei trasformarli. Ma come faccio
se anch’io non mi trasformo?”.
Sono
scariche elettriche quelle che ci accolgono lungo lo scorrere delle dieci
giornate; hanno le sembianze di un diario che raccolga sfoghi, sensazioni e
propositi; in realtà sono vibrazioni dell’anima, irregolari e distinte dal
battito del cuore. Esse trovano nel nucleo centrale dello spirito una sorgente
inarrestabile e dal flusso potente, il quale si insinua, come un nuovo sangue,
in ogni particella del corpo imprimendole più di una direzione, così che il
protagonista, mentre avverte tutta la ricchezza e vastità del proprio essere,
ne resta smarrito e prigioniero.
È un
romanzo che si divide equamente tra eccitazioni (“Ci ho addosso una forza che
mi porta via…”; “Arriverò nella classe ad occhi chiusi correndo e lascerò che
le parole escano fuori liberamente, diventerò per loro non solo quelle parole,
ma questa energia giovane e frenetica, che si allargherà, conquisterà…”), le
quali oltrepassano perfino, talvolta, il confine della sovversione, e delusioni
ed immobilità per un futuro preannunciato, ma ormai furiosamente reso
impossibile. Tutto ciò produce un grido, un urlo, più di disperazione che di
rassegnazione, contagioso e lacerato, alla Munch. Non è un caso che, tra le
tante diapositive che deve selezionare per una manifestazione del Pci, scelga
questa: “Solo un’immagine funziona davvero: una studentessa che urla, il pugno
alzato, il volto interamente preso insieme ad altri studenti, nel cuore di una
manifestazione studentesca. Funziona: c’è un sentimento forte, un soggetto in
evidenza, una realtà sociale, la piazza come contesto.”. È l’urlo ora a
dominare, diventato un simbolo, un’icona, una rappresentazione universale della
condizione umana. La piazza, la scuola (qui il riferimento all’esperienza della
scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani è evidente), ogni spazio diventano una
esercitazione alla vita, una novella sperimentazione che, guidando ciascuno
alla scoperta di sé, lo forgia per un rapporto innovativo con il prossimo:
“Vorrei portarli laddove si crea, circuendoli in un rapporto stretto e diretto
di domande-risposte, dove l’individualità diventa anche apporto collettivo,
sentimento collettivo, in cui l’uno si sente parte di un insieme.”. È la
ricerca ansiosa e fideistica di un percorso nuovo, un tentativo di cambiamento
per resistere e ancora sperare. Nel libro, come non c’è amore, nemmeno ci sono
silenzi. Pur in quello che immaginiamo possa essere il silenzio assoluto, noi
percepiamo il nostro respiro, ossia il nostro essere e il nostro vivere, quello
passato, quello di oggi, e perfino quello che è già dentro di noi in gestazione
per il nostro futuro.
È una
storia di forte e accelerato movimento. Le dieci giornate sono l’espressione di
una eternità in divenire, che non potrà mai arrivare a sintesi e comprensione,
né potrà mai né implodere né esplodere, ma semplicemente estendersi, invadere e
dominare ogni volta sempre di più. E il suo rendersi incomprensibile altro non
è che una astuta strategia di lotta per continuare a vincere. Un amico
“filosofo” gli dirà: “per il nostro pianeta, per noi genere animale non c’è più
speranza.”. Lui stesso rifletterà: “Mi sento senza alcuna estensione e spessore
come se fossi soltanto questo grumo di dolore statico e ripetitivo, che mi
inchioda ad un sentimento del nulla, di uno zero, che tuttavia esiste.”; “Mi
sento investito di futuro e oscillo tra la cieca esaltazione dell’esserci e una
paura poco decifrabile.”.
Quando
arriviamo in fondo al libro, nemmeno ci se ne accorge. La scrittura è filata
via liscia, i dialoghi sono di un sincronismo raro.
Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe editore. Euro 12,00
Bartolomeo Di Monaco
nato a San Prisco il 14 gennaio 1942, ma risiede a Lucca dalla nascita.
Ha scritto vari libri alcuni dei quali qui ricordiamo.
Opere di narrativa:
Cencio Ognissanti e la rivoluzione impossibile; Mattia e Eleonora; Caro papà, Caro figlio; Giulia; Cara Anna; Le tre sorelle; Lo sconosciuto; Gigolò; Celeste; La scampanata; Lucchesia bella e misteriosa. Storie e leggende; Tales told in Lucca; La casa delle meraviglie; La collina del Santo e del Diavolo; Il nonno racconta. Lucca, favole e leggende; Le favole di nonno Bart; In giro per Lucca con nonno Bart.
Opere di saggistica letteraria:
Quaranta letture. Percorsi critici nella letteratura italiana contemporanea; Quarantatre letture. Il Sud nella letteratura italiana contemporanea; Generazioni a confronto nella letteratura italiana; Leggiamo insieme gli scrittori lucchesi; Uno sguardo sulla letteratura straniera di ieri e di oggi; Letture sparse tra vecchio e nuovo; Il Risorgimento visto da ‘Il Conciliatore toscano’ del 1849; I Maestri. Gli elzeviristi del ‘Corriere della Sera dal 1967 al 1970; I Maestri. Scelta di articoli de ‘La fiera letteraria’ dal 1967 al 1968; Omaggio a Carlo Sgorlon. I romanzi; Narrativa minore sotto il Fascismo, Scrittori di guerra lucchesi.
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