Un
uomo, Silvio, ha deciso di rimanere isolato e di affrontare stoicamente il buio
e l'assordante silenzio della solitudine coadiuvato solo dai suoi libri
(Caproni, Hemingway, i diari di Sylvia Plath) e dalla musica di Rachmaninov, in
compagnia dei ricordi, scivolando così sul tramonto della propria vita come
un'isola che si richiude ancor più in se stessa facendosi iceberg.
La
sua famiglia non gli è familiare, i suoi figli sono al pari di estranei, l’unico
contatto è quello con una commessa del supermercato dello spopolato villaggio
di quindici anime dove si è rifugiato. In questo stadio, inizia a sviluppare
manie e tic : voler rimanere seduto, il “capochinismo”, la convinzione di
parlare mentre i pensieri gli rimangono dentro, intrappolati, inespressi. Le
persone intorno piano piano spariscono come ombre: chi non cerca alla fine non
verrà cercato. Eppure questa solitudine programmatica e metodica non porta
soddisfazione e vera serenità al protagonista, ma ne aumenta la frustrazione.
“Gli altri sono la possibilità, il rischio..” mentre libri e silenzio “non
bastano a fare una vita”.
Silvio
non è contento (“Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia”, dice il fratello
Roberto, citazionista compulsivo, appunto citando Paul Valery): vorrebbe,
nell'anniversario decennale della morte della moglie, accanto a sè i suoi tre
figli ed il fratello e così in qualche modo li richiama, li rievoca. Ed essi si
presentano. Peccato che anch'essi siano afflitti -in una sorta di tremendo
incubo psicopatologico sociale- da altrettante solitudini, oscillanti fra
narcisistiche necessità di farsi comprendere e sentimento di aver fallito, fra
rimorsi e rancori. Va da sé che in questa epidemia di solitudine
l'incomunicabilità è il tema ricorrente, un nodo nel nodo delle innumerevoli
varianti di solitudini (per essere tale, la solitudine fa in modo di
specificarsi, in ciascuno, in modi e maniere diverse, così da acuirne il
singolo ed incomparabile dolore).
Ad essa si legano le varie manie ed ossessioni del protagonista e dei suoi consanguinei: Alice, Vincenzo, Maria nonché il fratello maggiore, Roberto -impersonato dal grande e consumato attore Roberto Nobile- mentre si crogiuolano nei loro disagi, gareggiano in definizionismo, offrendo, al protagonista, descrizioni e soluzioni, ma senza risalire o interessarsi alla radice del malessere. Essi, dunque, vivono la malattia come stato consolatorio in una società che impone la dittatura della salute, soffrendo altresì la fatica di occuparsi gli uni degli altri (“occuparmi di te mi prosciuga”, dirà Silvio ad Alice).
In
questo riuscito spettacolo inframmezzato da battute e spunti comici (i figli
uno non si aspetta, crescendo, che diventino dei “suoceri” criticoni e , oltre
una certa età, si dovrebbe passare di grado a cugini..), Silvio Orlando si
staglia come un gigante, padroneggiando una sceneggiatura analitica profonda ma
verbosa e si conferma come un maestro di eccezionale talento.
Bravi
tutti nelle loro interpretazioni, essenziale la scenografia ma al contempo
elegante e raffinata, spettacolo da non perdere (al teatro Quirino, fino al 2
febbraio) che fotografa mirabilmente la società e la sua deriva solitaria e
isolazionista.
SI
NOTA ALL’IMBRUNIRE
(Solitudine
da paese spopolato)
Scritto e diretto
da Lucia Calamaro
Con
(in ordine alfabetico):
Vincenzo
Nemolato, Roberto Nobile,
Alice Redini, Maria Laura Rondanini
Scene: Roberta Crea
Costumi: Ornella e Maria Campanale
Luci: Umile Vainieri
Nessun commento:
Posta un commento