di Sergio Scalise
Questo volume si caratterizza per una scrittura densa, competente, dietro la quale si sente tutto il lavoro di ricerca svolto; si respira serietà scientifica ad ogni pagina con richiami ai più illustri pensatori che si sono espressi sull’argomento, da Leibniz a Pascal, da Vico a Foucault.
A chi scrive, che non è specialista del settore, ha fatto piacere scoprire nozioni di un certo fascino (come la ‘geometria del caso’) e meditare su rapporti cui non aveva mai dedicato attenzione, come i rapporti tra probabilità e giurisprudenza o le implicazioni che intercorrono tra il concetto di probabilità e la storia della logica giuridica.
Libro importante dunque e per le interconnessioni tra nozioni complesse (basterebbe il titolo del primo paragrafo a sottolineare l’importanza dei concetti analizzati: I fondamenti della logica giuridica moderna) e per la loro ‘storia’ nel corso del tempo, corredata da un ampio ricorso alle fonti primarie.
Chi scrive si occupa di linguistica e dunque la sua attenzione si è concentrata sulle nozioni linguistiche. Discuterò pertanto brevemente due punti.
La nozione di 'segno linguistico simbolizzato' (p. 21) pone qualche interrogativo. Tutta la linguistica contemporanea si basa sulla nozione saussuriana di ‘segno’, che è, come è noto, l’unione arbitraria tra un significato e un significante. Non è dunque chiaro cosa voglia dire quel ‘simbolizzato’. E dunque non è chiaro come “il segno abbia la stessa importanza delle parole” (p.22).
Per la linguistica contemporanea, un segno è (anche) una parola o meglio: una parola è (sempre) un segno, in quanto dotata di un significato e di un significante, dove il rapporto tra queste due facce inseparabili (come il retto e il verso di un foglio) è ‘arbitrario’ (nel Cratilo di Platone si discute se le parole siano per ‘nomo’ o 'fisei’ e la risposta odierna è ovviamente ‘nomo'. Naturalmente, gli autori citati sono tutti di epoca pre-saussuriana e dunque la loro nozione di segno non coincide con il segno saussuriano. D’altra parte è stato notato che diversi autori francesi importanti (Derrida per es.) facciano speso un uso, come dire, ideologico di nozioni tecniche, ma questa è la tendenza generale di chi fa più storia della disciplina che praticare la disciplina al fine di scoprire, e possibilmente spiegare, meccanismi specifici del linguaggio umano. Un solo esempio: a p. 72 si dice che secondo Foucault (1926-1984) il pensiero classico sarebbe un ‘pensiero per segni’ dove un significante astratto rinvia ad un significate concreto. Ora, il “Cours de linguistique générale” di Ferdinand de Saussure è del 1916, dove la nozione classica del ‘segno’ comporta che il significante sia sempre concreto; non esistono significanti astratti. Astratta può essere l’altra faccia del segno, il significato. Ma Foucault non sembra voler intervenire sulla questione.
Un altro punto che ha attirato la mia attenzione è la frase di Wittgenstein posta nell’esergo: Les limites de mon langage signifient les limite de mon univers.
E’ lecito chiedersi quali sono questi limiti. Sono quelli della mia lingua, della lingua che si parla attorno a me o sono i limiti di quel che io ho appreso. In altri termini sono limiti strutturali o limiti -diciamo così- della mia educazione linguistica?.
La domanda ha a che fare anche con una questione terminologica di un certo peso, dato che langage è ‘linguaggio’, facoltà del linguaggio e si oppone a langue, che è la lingua, una data lingua storica.
Mentre language sembra dire che si tratta della prima ipotesi, mon language sembra rimandare alla seconda.
Dal punto di vista della linguistica contemporanea, langage è una facoltà umana (e solo umana) innata e dunque sarebbe, è, improprio parlare de ‘il linguaggio degli animali’. Langue è la somma delle potenzialità che una lingua ha, è il ‘sistema’ che a sua volta si oppone a parole come atto concreto (de Saussure). Vi è dunque una sorta di gerarchia: langage, langue, parole dove il primo termine indica una facoltà umana, il secondo è il sistema astratto di una data lingua storico-naturale (il francese, il basco), il terzo rappresenta gli atti concreti, le realizzazioni linguistiche. A tutto questo si potrebbe aggiungere il termine ‘idioletto’ che rappresenta quanto un parlante padroneggia della sua langue. Tutti coloro che affrontano temi legati al linguaggio, alla lingua dovrebbero, oggi, tenere presente questa articolazione. E cosi’, ci possiamo legittimamente chiedere a quale di questi livelli Wittgenstein desiderava riferirsi: alla langue o all’idioletto?
Gli interrogativi che il libro in oggetto pone sono rilevanti per una varietà di discipline: la logica, la retorica, l’arte giuridica dove queste nozioni si intersecano in vari modi e alla fine rimandano al rapporto ‘ragione/passione’ nel discorso giuridico: qual è il limite dell’arbitro del giudice nelle questioni di giustizia? (p.246). Il limite è rappresentato dalle norme giuridiche o dalla coscienza? Domande che rimandano a questioni esistenziali fondamentali, come il dramma di Antigone (obbedire alle leggi umane o a quelle della coscienza?) o come il problema della giustizia ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij con il suo invito a pensare attraverso le emozioni se si vuole evitare di non credere più alla giustizia, dato che una giustizia puramente razionale può generare dei mostri.
Il volume di Angela Giovanna Palermo è un lavoro stimolante, vasto, articolato in sei densi capitoli dove la densità concettuale non ostacola la lettura, dato che è sempre chiaro e puntuale e riccamente documentato.
Angela Maria Palermo. Logique juridique et logique probabiliste à l’âge moderne. Perspectives pour une philosophie du langage. Editions Mimesis, 2019.
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