04 gennaio 2022

“I due minatori” di Margaret Bourke-White

 


nota di Gianni Quilici

E’ una foto splendida. E’ la foto che la stessa autrice, Margaret Bourke-White, definì come sua “preferita”. Siamo nel 1950, in una miniera d’oro, a Johannesburg nel Sudafrica  con due giovanissimi minatori. E’ una foto splendida, perché esprime una contraddizione esplosiva, che non si coglie al primo sguardo, perché più implicita che esplicita.  

Infatti è sufficiente aver letto racconti o inchieste giornalistiche o essersi imbattuto in qualche pellicola  per immaginare quanto sia disumano, oltre ogni umanità, aver lavorato (o lavorare) in miniera. Aver lavorato ( o lavorare) dentro le viscere della terra, con una temperatura, in questo caso, di 38°,  con un’aria irrespirabile, buio, polveri mortali,  umidità e lavoro di mani,  braccia,  schiena  con picconi, pale, carrelli per 8-10 ore senza soste. Quanto può durare una vita! Quanto sarà durata la vita, per esempio, di questi giovinetti? E che vita sarà stata?

Qui tuttavia ciò che  colpisce al primo sguardo è la bellezza  dei due giovani minatori.  E’ la dignità del loro sguardo abbandonato (l’uno), circospetto (l’altro) e comunque poco definibile. E’ la nobiltà della loro postura, che li fa sembrare, nella loro naturalezza, statue viventi. Sono i caschi poverissimi da minatori con la torcia elettrica sovrastante, che  formano una sorta di aureola intorno al capo. E’ lo sfondo buio della miniera che fa risaltare il biancore delle pupille. E’ il torace nudo e virile  su cui scorrono fitte le goccioline di sudore che, oltre  oltre a segnalare la fatica del lavoro, infonde alla foto un tocco poetico, quello che forse Roland Barthes avrebbe definito il punctum dell’immagine.

Una domanda tuttavia sorge. Non è uno scatto troppo estetico che sorvola il dramma che enuncia appena? Margaret Bourke-White realizzò un reportage sull’Apartheid in Sudafrica, ma riuscì a ottenere l’accesso alla miniera  solo attraverso eccezionali misure di sicurezza (possiamo immaginare quali fossero) e con la diffidenza “politica” dei proprietari. E questo ritratto non solo non falsifica niente, ma scolpisce con la pellicola un’umanità e una bellezza che saranno distrutte.

 Margaret Bourke-White. Johannesburg. 1950

 


 

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