10 gennaio 2022

"Pensieri della mosca con la testa storta" di Giorgio Vallortigara

 

di Giancarlo Beriola

         Un verme sta strisciando sul terreno di un prato, improvvisamente gli cade addosso del terriccio e istantaneamente si arrotola su se stesso; una persona è distesa al sole sulla sabbia con gli occhi chiusi, improvvisamente le cade addosso della sabbia: apre subito gli occhi e si alza in piedi.

    Entrambi hanno “percepito” qualcosa che accadeva là fuori (fuori da sé) e “sentito” (dentro di sé) che accadeva loro qualcosa e vi hanno risposto con uno stimolo motorio. “Quest’idea che esistano due diverse modalità di rappresentazione degli stimoli, le sensazioni, quello che accade a me, e le percezioni, quello che accade là fuori, è un’idea di Humphrey [Nicholas, psicologo evoluzionista] che prende a prestito da Thomas Reid (1710-1796) filosofo della Scuola scozzese”.

    La citazione è tratta dall’interessantissimo saggio di Giorgio Vallortigara Pensieri della mosca con la testa storta, che cerca di dare una risposta ”... al problema della coscienza animale. ... Qui per coscienza intendo il fatto di avere esperienze, di provare, di sentire qualcosa quando si sfiora una guancia con le dita, si odora della menta o si guarda il fondo di una pentola bruciacchiata ... E la confusione è causata dal mescolare liberamente il tema dell’avere coscienza con quello del mostrare certi comportamenti. Non è ovvio quando e perché alcuni comportamenti semplici o complessi siano accompagnati da un sentire, dal fatto di avere esperienze”.

    Come è possibile quindi che in situazioni simili un verme e un homo sapiens abbiano le stesse reazioni? L’essere coscienti potrebbe essere una risposta ma si dubita che i vermi siano coscienti (possiederebbero troppi pochi neuroni...) in quanto si ritiene che solo cervelli voluminosi permettano tale stato ma, se così fosse, quale sarebbe la dimensione necesssaria? “Prendiamo il caso dei cetacei. La grande intelligenza di questi animali viene spesso associata ai capienti volumi dei loro cervelli. In realtà specie diverse mostrano dimensioni alquanto variabili - dall’etto e mezzo scarso del delfino dell’Indo ai ragguardevoli sette chili della megattera”. E, utilizzando il quoziente di encefalizzazione (massa del cervello rapportata a quella che ci si aspetterebbe di trovare in un tipico animale della stessa taglia), si scopre che nella specie Steno bredanensis è pari a 4,95 mentre per i capodogli è di 0,16.

    Anche il numero dei neuroni presenti in un cervello non è un indice significativo di intelligenza (302 neuroni il verme, 86 miliardi l’uomo - come si sia arrivati a questo preciso numero lo trovate nel libro stesso) in quanto “al variare delle dimensioni dei cervelli il numero dei neuroni può cambiare in maniera diversa nelle differenti specie. Nei primati i neuroni aumentano con lo stesso tasso con cui si accrescono i cervelli ... Nei roditori, invece, la grandezza dei cervelli aumenta più di quanto aumenti il numero dei neuroni” (per sintesi: in un grammo di cervello di una scimmia di taglia piccola troviamo lo stesso numero di neuroni che in un grammo di cervello di una scimmia di taglia grande; invece potremmo trovare più neuroni in un grammo di cervello in un roditore di taglia piccola rispetto a quello di un roditore più grande).

    “Nel libro svilupperò idee che sono antitetiche a questo modo di concepire il problema dell’esperienza cosciente [grado zero di coscienza del verme e grado massimo per l’uomo] ... In particolare sosterrò la tesi abbastanza estrema che le forme basilari della vita mentale non necessitino di grandi cervelli e che il surplus neurologico che si osserva in alcuni animali sia probabilmente al servizio dei magazzini di memoria, non dei processi di pensiero o della coscienza”.

    Quindi, se non è la dimensione del cervello che determina i processi di pensiero o della coscienza (molti gli argomenti nel saggio che lo dimostrano...) qual è il substrato che ha permesso questi processi? Secondo Vallortigara questi processi sono sollecitati dalla capacità delle cellule di sentire, capacità, questa, derivante dall’acquisizione del movimento volontario che ha reso necessario distinguere il dentro dal fuori di sé.

    Quello che chiamiamo senziente è un organismo che deve in primo luogo distinguere tra i segnali che genera egli stesso e quelli che sono generati sulle sue membrane da tutto ciò che è altro da lui. Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile <sentire> la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio”.

   Strutturati questi due sistemi - recettoriale e motorio - qual è il meccanismo che permette la distinzione tra un impulso interno e uno esterno?

   Supponiamo che dal cervello arrivi un segnale (o stimolo) ai muscoli extraoculari che fanno muovere gli occhi, segnale che chiamiamo efferente; una copia di questo segnale efferente viene inviata al comparatore che “attende” un segnale afferente cioè un impulso che dall’esterno, attraverso gli organi di senso, arrivi al sistema nervoso (nota: in questo caso il segnale afferente che si produce è il risultato dello scorrimento dell’immagine sulla retina).

   Il segnale afferente passerà anch’esso dal comparatore ma, essendo presente la copia efferente che dimostra che lo stimolo iniziale è stato prodotto internamente dal movimento degli occhi anziché dal movimento di un oggetto esterno, il segnale afferente verrà cancellato.

   In un caso opposto, invece, se un segnale esterno (afferente) arrivase al comparatore questo, non avendo ricevuto alcuna copia efferente, lo lasciarebbe passare perché arrivi ai neuroni preposti.

   Torniamo allora al nostro verme che riceve sulla pelle il terriccio o alla persona che stesa al sole riceve sulla pelle la sabbia: il segnale afferente trasmesso dalla pelle non verrà cancellato ma sarà registrato come qualcosa di esterno e il sistema sensoriale manderà il segnale dovuto (di reazione o di accettazione o di indifferenza...); questa azione viene assimilata come esperienza.

    Come hanno notato molti autori, questa che viene posta in essere dal meccanismo di copia efferente costituisce in effetti una primitiva distinzione tra sé e non-sé, il passo cruciale per la comparsa della coscienza (alias esperienza). Ma come può il meccanismo della copia efferente produrre l’esperienza? L’esperienza, se seguiamo le intuizioni di Reid e Humphrey, è associata alla sensazione, a quello che succede a noi, e si manifesterebbe perciò proprio quando il segnale di copia efferente non è presente, quando cioè il segnale sensoriale non viene annichilito dalla scarica corollaria [o copia efferente]. Si noti, a questo riguardo, che quasi tutti gli autori sembrano credere il contrario perché non distinguendo tra sensazione e percezione, associano il ruolo dell’azione motoria alla percezione”.

    A questo punto credo si sia compreso quanto interessanti e complessi siano “i pensieri della mosca” considerando che quanto scritto è solo un accenno rispetto al contenuto del ricchissimo saggio di Vallortigara, scritto con una forma piana ed elegante e mai noioso, che sollecita curiosità e interesse.

   Ah, alla mosca Eristalis tenax, per un esperimento, è stata ruotata la testa di 180 gradi (cosa che può fare normalmente...) ma “testa storta” (anziché ritorta), dice l’autore, nel titolo suona meglio.

    E, a proposito di esperimenti, tra i vari presentati nel saggio c’è ne uno nel quale una scimmia di nome Helen è stata chirurgicamente resa cieca: a lei e a tutti gli animali sacrificati (non solo in nome della scienza...) sento di fare le mie scuse.

 Giorgio Vallortigara è professore di Neurologia e Cognizione animale presso l’Università di Trento. In precedenza Adelphi ha pubblicato Cervelli che contano (scritto insieme a Nicla Panciera, 2014).

 Giorgio Vallortigara. Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 173 pagg., € 20,00)

 

 

 

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