15 agosto 2022

"La lapide di Rosa" di Claudio Orsi

 


di Elisa Bertoni

Quale storia può nascondere una lapide?

       Lo sapeva Foscolo quando nel celebre carme Dei Sepolcri sottolineava l'importanza della tomba, non solo come mezzo per ricordare i propri affetti scomparsi, ma soprattutto come luogo privilegiato per costruire una coscienza civica che possa affrancarsi dalla barbarie, permettendo, grazie alla memoria, che l'umanità non si smarrisca nel vuoto di un oblio autodistruttivo.

       Il tempo può far sbiadire le scritte, anche quelle scolpite sulla roccia o impedire di comprenderne il contenuto: ecco perché diventa necessaria la passione di un ricercatore che sappia far parlare ciò che c'è scritto, come fanno poeti e storici, capaci grazie ad una curiosità mai doma unita ad inesausto amore per la verità, di dare voce a quello che, muto, aspetta di incontrare chi gli dia parola, liberando dal vincolo di una rigida lapide le storie ivi impresse.

       E' questo che è riuscito a fare Claudio Orsi, nel suo libro La lapide di Rosa: far parlare una pietra. La lapide diviene lo strumento di partenza per ricostruire eventi di storia locale che si inseriscono nel contesto ben più ampio della Resistenza, un frammento della propria terra che come una tessera di mosaico va ad impreziosire l'esteso quadro di uno dei periodi più complessi e drammatici della nostra storia nazionale.

       Apprezzabile il fatto che il narratore abbia rinunciato a romanzare gli eventi, rimanendo fedele alle asciutte testimonianze, come quelle ricavate dalle Cronache di Daniele Ricci, sacerdote della Parrocchia di S. Michele e S. Lorenzo di Moriano, e soprattutto alle genuine parole di Nanni Maffei, l'ormai novantaduenne figlio di Giuseppe, rimasto ucciso insieme a Rosa Rosenthal, ad Ugo Brandini e a Neno Sodini dal fuoco nazista che dalla Linea Gotica cercava di arrestare l'avanzata degli Alleati.

 Era il 24 settembre 1944.

      La testimonianza di Nanni Maffei ha tutto il gusto della storia orale: i ricordi fluiscono con l'evidenza di chi sembra che abbia ancora davanti agli occhi i fatti che commemora fino agli eventi di quel tragico giorno, i luoghi vengono ricordati con precisione, con i toponimi locali, quasi si sentisse il bisogno di definire e circoscrivere con esattezza il perimetro della tragedia per convalidare l'esattezza del racconto. 

     La vividezza dei ricordi di Nanni e la registrazione puntuale dei fatti da parte di don Ricci nel suo diario ci fanno percepire anche a distanza di ottanta anni la tensione di quei momenti in cui la paura poteva divenire viltà ma spesso anche indignazione e voglia di riscatto. A volte è la percezione dell'orrore a smuovere le coscienze. Si legga ad esempio don Ricci quando con accorata compassione registra l'incontro con una sfollata: “ho trovato questa giovane “sfollata” con un occhio portato via e con la testa sfracellata da una scheggia” o quando Nanni dichiara: “il corpo di mio padre non me lo fecero vedere”. Il non vedere il cadavere diviene paradossalmente la descrizione più compiuta se pur silenziosa di un corpo orribilmente mutilato.

       Eppure non si deve credere che il libro indulga ai particolari che fanno tragedia. Nelle pagine non c'è traccia di enfasi retorica ed è questa sobrietà di fondo a infondere alle pagine l'equilibrio della verità.

     Questo libro, alla maniera dei veristi, sembra essersi fatto da solo. L'umiltà di Claudio diventa alleata imprescindibile del suo amore e del rispetto per la verità storica nella sentita speranza che essa, sebbene più volte trascurata ed inascoltata, possa imporsi una volta per tutte come “magistra vitae”, guida affidabile contro la prepotenza subdola di più o meno latenti nuovi fascismi.

      Un libro eticamente rilevante, dunque, sia per il contenuto capace di veicolare l'autenticità in quella convivenza di atti drammatici e gesti di generosità mai glorificati o autocelebrati dalle persone coinvolte, ma presentati come naturali e spontanei; sia per il metodo, che eclissa chi ha avuto l'idea del libro per lasciare spazio alla storia: da una lapide alle fotografie, agli atti ricavati dagli archivi, alle Cronache di un parroco, ai giornali d'epoca fino alle preziose parole di un testimone.

      Ecco che cosa può fare un occhio che scruta, una mente che indaga, un cuore che scrive. Lo scrittore austriaco Karl Kraus diceva che “l'ironia sentimentale è un cane che ulula alla luna pisciando sulle tombe”. Io oserei dire che lo è l'ignoranza che può ammantarsi di apparente grandezza abbaiando all'inarrivabile luna, disconoscendo l'umanità e la concretezza che può derivare da una tomba.

      Claudio ha curato e rispolverato una tomba senza bisogno di ululare alla luna. Questo è La lapide di Rosa: sobrietà, umanità, concretezza

Claudio Orsi. La lapide di Rosa. Pag. 8o. Coloré. Giugno 2021. 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bella recensione di un libro senza dubbio importante!