27 agosto 2022

 



di Marigabri

“I russi sono matti” scrive Paolo Nori, e un pochino matto dev’esserlo pure lui; di sicuro è matto completo per gli autori russi perché la letteratura è qualcosa che ci tocca nei punti nevralgici, che ci scombussola, ci scuote e ci sobbalza dalla pacata inerzia che a volte (spesso) siamo.

Insomma: la letteratura è qualcosa che fa male e a Paolo Nori questo far male piace.

(“A me, ci ho messo degli anni a capirlo, non piace divertirmi, a me piacciono le cose che fanno piangere, come la letteratura russa e le partite del Parma.”)

E più male di tutti probabilmente glielo fa Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore dalla vita travagliata, a cui Nori dedica questo libro (romanzo, dice lui, ma definirlo in qualche modo sarebbe riduttivo); un libro che non parla soltanto (con molte stupefacenti digressioni) della vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, ma anche di quella di Paolo Nori. E soprattutto parla della mia vita e di quella di ciascun altro che si cimenta a leggere i contenuti di Paolo Nori nella prosa di Paolo Nori: ovvero la sua parlata con quell’accento emiliano cantilenante che si fa scrittura. E perciò unico e divergente (oltre che a tratti divertente; però sempre con quel fondo amaro di chi ha un’indole malinconica), matto e geniale come i suoi russi che tanto ama.

“Perché la letteratura, il romanzo, è, sempre, dalla parte del torto. Non nasce nelle corti, nasce nelle piazze dei saltimbanchi, nelle case dei malati, dei cialtroni, degli zingari, dei ladri, dei truffatori, dei briganti, dei meridionali, degli italiani, dei mostri, degli idioti.”

E così la ferita di chi per la prima volta incontra stupefatto sé stesso nelle pagine di un libro sanguina, sanguina ancora.

Paolo Nori. Sanguina ancora.  Mondadori

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