12 maggio 2014

"Alle origini del poliziesco tricolore" di Luciano Luciani




Modelli e imitazioni

Fu l’eroe di Conan Doyle il modello su cui si plasmarono i primi investigatori letterari italiani. Sherlock Holmes giunse in Italia nel 1895 per iniziativa della casa editrice Verri che raccolse in un unico volume tre racconti della saga del detective di Baker Street. Quattro anni più tardi “La Domenica del Corriere” ne pubblica altri episodi quasi in contemporanea con le edizioni originali che apparivano in Inghilterra a puntate sullo “Strand Magazine”. Visto il successo delle storie e del personaggio, gli editori italiani fecero a gara nel pubblicare inediti e ripubblicare i romanzi di maggiore apprezzamento presso i lettori. Escono così diverse edizioni di alcuni tra i romanzi più famosi dello scrittore inglese come Uno studio in rosso e Il segno dei quattro che erano rimasti esclusi dall’iniziativa della  “Domenica del Corriere” e che solo in seguito saranno editati nei singoli volumi della collana Il Romanzo Mensile. Allo scoppio del primo conflitto mondiale in Italia erano apparsi tutti i testi sherlockiani che hanno avuto un effetto di trascinamento anche sugli altri testi di Conan Doyle, quelli rivolti all’avventura e al mistero come Un mondo perduto, La mummia rediviva, Le avventure del colonnello Gerard

Ovviamente non potevano mancare gli imitatori e già nel 1902 Dante Minghelli Vaini, con lo pseudonimo di Donan Coyle pubblica uno Shairlock Holtes in Italia, una raccolta di sei racconti ambientati nel Bel Paese e narrati in prima persona da un certo dottor Maltson.
Imitazione e confronto li ritroviamo anche sui fascicoli dedicati alla saga del poliziotto italo-americano Joe Petrosino che iniziano ad uscire a partire dal 1909 con la dicitura “Joe Petrosino–Il Sherlock Holmes d’Italia”: per gli autori e i lettori del tempo il personaggio di Conan Doyle è sinonimo di investigatore. Nel 1911 Umberto Cei pubblica due romanzi, Un dramma alla stazione e Il segreto della cassaforte, che hanno come protagonista un personaggio dal nome di sicura aristocrazia italiana, Riccardo De Medici che sembra incarnare sia i lineamenti raziocinanti di Holmes, sia quelli dinamico-attivistici di Petrosino.

Poliziesco e feuilleton
Ma le origini del poliziesco tricolore sono senz’altro precedenti a questi fenomeni d’imitazione e affondano le loro radici in altri generi letterari con cui convivono e di cui si alimentano. Per esempio, il feuilleton: e quando se parla, almeno nel nostro Paese, si dice di Francesco Mastriani (Napoli 1819-1891), scrittore popolarissimo di romanzi d’appendice, circa un centinaio, nei quali ritrasse le miserabili condizioni di vita della plebe napoletana, attraverso la narrazione di vicende torbide, spesso desunte dai fatti più clamorosi della cronaca nera e modellate sulle pagine parigine di Sue e Balzac . Fra i suoi titoli più famosi La cieca di Sorrento, 1852; I vermi, 1862-64; I misteri di Napoli, 1875; La sepolta viva, 1889.

Non si trascuri, poi, nelle ricerca delle origini di una letteratura poliziesca nazionale la sperimentazione degli autori della Scapigliatura, tra i quali merita di essere ricordato Emilio De Marchi (Milano, 1851 – 1901). Laureatosi in lettere nel 1874 presso l’Accademia scientifico-letteraria della città lombarda, fu insegnante liceale, e docente di stilistica presso l’Accademia dove aveva studiato. L’attività letteraria del De Marchi ebbe inizio nel clima della Scapigliatura milanese, evidente nel primo romanzo, Due anime in un corpo, 1878, carico di ossessioni e inquietudini: il protagonista, Marcello, rivive l’esistenza di un amico assassinato, il violinista Lucini, fino ad amare Marina, la donna per la quale il Lucini era stato ammazzato, a lui sconosciuta. Capolavoro del De Marchi è considerato Demetrio Pianelli, 1890, in cui secondo i modi del realismo, in una prosa dimessa e cordiale, descrive le vicende e gli affanni di quel nuovo ceto, la piccola borghesia impiegatizia che l’unità nazionale aveva portato alla ribalta e moltiplicato: in questo testo, poi, accanto al motivo sociale si aggiunge anche quello della passione amorosa. Sulla linea della grande tradizione letteraria lombarda, che, da Parini a Manzoni sentiva con forza il senso della responsabilità morale e civile dello scrittore, con Il cappello del prete, 1887, De Marchi intercetta, forse non del tutto consapevolmente, alcune procedure tipiche del romanzo poliziesco. Uscito prima a puntate nell’”Italia”, l’anno dopo sulle pagine del “Corriere di Napoli” e poi in volume, Il cappello del prete prende lo spunto da un fatto di cronaca nera, l’omicidio di un sacerdote, e si muove programmaticamente nell’ambito della letteratura d’appendice, non disprezzata, ma anzi colta come occasione per parlare al grande pubblico. Così scrive De Marchi nell’avvertenza del romanzo: “L’autore entrato in comunicazione di spirito col gran pubblico, si è sentito più d’una volta attratto dalla forza potente che emana dalla moltitudine; e più d’una volta si è chiesto in cuor suo se non hanno torto gli scrittori italiani di non servirsi più che non facciano di questa forza naturale per rinvigorire la tisica costituzione dell’arte nostra. Si è chiesto ancora se non sia cosa utile e patriottica giovarsi di questa forza viva che trascina i centomila al leggere, per suscitare in mezzo ai palpiti della curiosità qualche vivace idea di bellezza che aiuti a sollevare gli animi. L’arte è cosa divina; ma non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”. Se non c’è ancora il poliziesco, compare lo spirito che ne è all’origine: una letteratura insieme popolare e colta, accessibile e vocata al ragionamento induttivo-deduttivo.

Carolina e Italo
Non si può trattare di letteratura d’appendice in Italia senza soffermarsi su Carolina Invernizio, (1851 – 1916), l’”onesta gallina della letteratura”, come ebbe a definirla con qualche severità Antonio Gramsci. Trasferitasi in giovanissima età dalla natia Voghera a Firenze, dove seguì gli studi magistrali e visse per la maggior parte della sua esistenza, pubblicò oltre 120 romanzi, densi di situazioni patetiche e terrificanti, scritti in uno stile sciatto ed approssimativo sul modello dei feuilletons di Xavier de Montépin e Ponson du Terrail. Avversata dalla critica, messa all’Indice dal Vaticano, le sue opere raggiunsero tirature incredibili per i tempi. Il successo di pubblico di questa scrittrice rappresenta un fenomeno su cui gli studiosi dei fatti letterari hanno cominciato a riflettere negli ultimi trent’anni, ritrovando nell’autrice la degradazione del romanzesco dell’Ottocento che si manifesta in un intreccio di sadismo e sentimentalismo che esercitò una funzione gratificante presso il vasto pubblico della letteratura di consumo. Circa il giudizio secondo cui all’Invernizio spetterebbe il ruolo di progenitrice del poliziesco di casa nostra, Folco Portinari scrive che soprattutto in alcuni romanzi come Il bacio d’una morta, “l’impianto generale, anche a livello di trama, può essere già quello del giallo investigativo” Per Anna Nozzoli “siamo… più vicini al mérvilleux expliquè di Ann Radcliff che non alle strutture lineari del romanzo poliziesco” e sarà necessario attendere “i romanzi del primo decennio del nuovo secolo, perché l’Invernizio metta a punto in modo più preciso l’impianto del racconto investigativo, anche se naturalmente il suo giallo resterà sempre denso di elementi estranei, costruito con l’architettura mista di detection e di feuilleton che era già stata caratteristica di Gaboriau o addirittura del primo Sherlock Holmes”

Sempre per la gioia dei ricercatori di patenti nobili per il detective story italiano, ricordiamo che anche Italo Svevo (Trieste 1861- Motta di Livenza 1928), negli anni del suo apprendistato letterario, si cimentò col poliziesco. Merita di essere ricordato L’assassinio di via Belpoggio, pubblicato sul quotidiano irredentista triestino “L’Indipendente” dal 4 al 9 ottobre 1890 e considerato come l’esordio ufficiale di Svevo alla scrittura. Giorgio, il protagonista, corrisponde a pieno alla galleria degli inetti sveviani: è un assassino quasi per caso, più per colpa di Antonio, la vittima che ostenta la propria ricchezza, che per una natura portata al male. Lo perderanno i sensi di colpa, le incertezze, le contraddizioni nel proprio comportamento criminale: pagine che sanno soprattutto di Poe (Il cuore rivelatore) e Dostoevskij.




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