Il fortunato incontro tra
Giuseppe Bergomi scultore e Roberto Cortese fotografo ci richiama, oggi, al
celebre “paragone” tra scultura e fotografia: un binomio che il secolo scorso
ha lavorato a declinare almeno in due direzioni. Da un lato, ci viene incontro
lo scultore-fotografo, colui che, dopo aver risolto l’opera danzandovi attorno,
torna, talvolta per un inspiegabile impulso, a rileggere lo stesso dettato
figurale in tre dimensioni nel fuoco di un unico punto di vista, quello dell’obiettivo
della macchina fotografica; dall’altro, c’è il fotografo di sculture, colui
che, viceversa, sperimenta la possibilità di leggere l’opera d’arte liberata
nello spazio disarticolandone e ricollocandone le parti in una nuova struttura
visiva. D’acchito pensiamo agli scatti di Medardo Rosso, Brancusi e
Man Ray; mentre per la seconda tipologia, la memoria corre al bianco e
nero degli Alinari, ai drammatici rilievi di Giovanni Pisano e ai corpi
di Michelangelo nell’obiettivo di Aurelio Amendola, all’esplorazione di
San Pietro da parte di Antonia Mulas.
La visione di Roberto Cortese
si situa al confine tra questi due approcci. Egli è il fotografo che, forte
delle risorse del suo medium, vuole ripercorrere il processo creativo
dello scultore per capire come sono fatti i suoi corpi, spinto dal desiderio di
scomporre e ricomporre il risultato finale di bellezza; ma è anche, e
soprattutto, l’interprete curioso che orienta il suo sforzo di immedesimazione
nell’oggetto plastico verso un itinerario di riscoperta dell’opera attraverso
la narrazione delle immagini. Questo statuto bifronte permette a Cortese di
evitare l’insidioso pericolo dell’antologia fotografica a fini
documentaristici, sulla falsariga delle riprese “da catalogo” e di virare la
sua onestà ottica verso i punti essenziali dell’esperienza visiva.
Così, delle figure bergomiane
di Cronografia di un corpo, Cortese fissa la luce che scorre e si
frantuma sui piani cubitali delle ginocchia; insegue il guizzo luminoso che si
inarca sui piani tesi delle tibie da atleta, o scende inseguendo il pulviscolo
luminoso lungo la schiena come goccia in corsa su un arco. D’improvviso,
scopriamo le meraviglie del modellato e, in esse, la consistenza e il peso di
queste bronzee presenze prossime a farsi carne: le minute e scabre rugosità dei
capelli; l’enucleazione delle spalle, aperte con la dolcezza di un cammeo; le
clavicole spiccate in rilievo che sembrano bacchette d’ebano e alle quali
rispondono, all’opposto, quelle scapole appena disegnate sottopelle, ora
affossate ora rilevate nell’allacciarsi di un braccio con l’altro. Con gioia
feroce contempliamo il lieve riporto di pelle sotto le natiche, e, ancora più a
fondo, ficchiamo l’occhio nella scabra grana epidermica del collo, crivellata
di graffiature e di tagli. Quando Cortese isola tre corpi della serie e ce li
mostra nelle loro rispondenze ritmiche, scopriamo la varietà delle finezze
anatomiche trovate da Bergomi nella sua infaticabile esplorazione del nudo: le
mani allungate e guizzanti che spiccano dai polsi con moto serpentinato; le
dita dei piedi puntellate al suolo e i polpacci vibranti nell’anelito elastico
della figura tesa verso l’alto; il collo in sforzata torsione; le punte
satinate dei seni; la sciabolata d’ombra scavata sotto il mento a sottolinearne
la spaziatura.
In questo splendido dialogo
tattile con l’opera di Bergomi, così prossimo al possesso, l’intelligenza e l’acume
dell’occhio di Cortese sanno restituirci ciò che, per quanto visibile alla
superficie, si ostina ad annidarsi sotto l’organismo plastico. L’obiettivo
fotografico, tagliando di sguincio l’infilata dei corpi o stringendoli da
vicino, aderisce, partecipa, dà battaglia all’oggetto che gli sta davanti.
Fruga a denudare quei depositi inespressi sfuggiti persino al controllo dello
scultore, il quale, così richiamato, torna sui suoi passi e coglie, con lo
stupore della prima volta, il di più di espressività latente che già era
racchiuso nel suo lavoro. Per Cortese fotografare la scultura non significa tanto
trarne fuori lo charme pittoresque, quel mettervi addosso un filtro o
una cipria che funga da maschera di bellezza. È semmai il contrario: pur
dovendo tradurre un “testo” (fatto di creta e bronzo patinato), in lingua
diversa egli riesce a mantenere la guaina plastica della rappresentazione
originale. E non c’è retorica fotografica neppure nel fissare dettagli non
immediatamente visibili. Isolati nel campo visivo dello scatto, la loro
apparizione dichiara sempre l’appartenenza al corpo sculturale senza mai cadere
nel particolare anodino o spettacolare. In questo senso, Cortese gioca a
trasformare i dettagli in punti unici di intensità, non in frammenti di un
discorso visivo. Con questo colpo d’ala, egli ci ricorda che siamo davanti ad
elementi di un tessuto formale concepito dall’artista per funzionare nella
relazione di tutte le parti.
Forte di questa qualità della
focalizzazione Cortese riesce a farci toccare con l’obiettivo la scattante
vivacità e asciuttezza degli undici corpi femminili dislocati in alto, come su
di un irraggiungibile altopiano. Ecco spiovere verso di noi quelle mani
liberate nell’aria o strette al corpo; quelle schiene e spalle saettate di
increspature muscolari; il flettersi delle gambe e la luce che scivola via; e
su tutto quella balenante rapidità di modellato liscio, rilevato o modulato
senza interruzioni che permea tutti i passaggi plastici; e ancora, il
susseguirsi di quelle linee sinuose o acutamente spezzate che registrano l’alternarsi,
nel processo esecutivo di Bergomi, di cura lenticolare e di incalzante corsività.
Ma la sfida del fotografo non si arresta qui. Ad accrescere questo stupore
sensoriale concorre il tentativo di restituirci, attraverso l’inquadratura
fotografica, la fattura dei corpi potenziata dall’agire su di essa dell’ambiente:
è il precipitare carezzevole o lancinante della luce sui volumi; sono gli
affossamenti dei coni d’ombra che costruiscono sacche di resistenza e di
tensione lungo i piani; è il serrarsi o disserrarsi delle pose larghe o
depresse; sono le abbreviature plastiche che i bagliori dell’attimo luminoso
bene esprimono nel meccanismo dei tendini, dei lacerti, delle giunture cucite
tra gamba ventre.
Cortese ci racconta Cronografia
di un corpo girando col suo occhio attorno all’alto piedistallo incurvato;
spia dal basso lo scalare, in diminuendo e in crescendo, delle figure sull’asse,
il loro brusio alfabetico di pose ricomposte in perfetta materia anatomica che
oscilla, si blocca, si distende, si allunga, si piega, si erge, si geometrizza.
Sa cogliere, quando serve, una parentesi narrativa nella testa che accenna a
voltarsi al di là della spalla, fissando quell’istante in cui l’idolo nero pare
infastidito o distratto dallo sguardo impertinente di un passante. Ma questi
ventisette scatti non ci restituiscono solo la sciolta modulazione dei nudi e
la maestria di Bergomi nella resa dei corpi accuratamente patinati con quello
smalto nero che, a contatto col bronzo, ne accresce l’energia frusteggiante e
nervosa del colore-materia. C’è qualcosa di più nell’assalto di questo
fotografo alla scultura. L’esempio di Roberto Cortese a noi sembra quello di
chi si prova nel difficile compito di carpire, assieme alla configurazione
stilistica e tattile del tutto tondo, anche la complessità simbolica dell’opera.
Occorre allora soffermarsi sul titolo scelto da Bergomi, la cui densità
semantica è tutta raccolta nell’alveo della parola “cronografia”, prelevata
dalla disciplina che presiede alla registrazione lineare degli eventi storici
sull’asse cronologico. Ma qui il senso è sottoposto a smagliatura. Il tempo -
il Cronos - non ha più nulla a che fare con gli eventi della storia. Il tempo
gioca con i corpi; letteralmente ne sostiene il peso della condizione umana.
Nelle intenzioni di Bergomi, quindi, “cronografia” diviene parola profondamente
“implicata” con la vita. La linea cronografica si materializza nel basamento
orizzontale ed è su questo asse che l’obiettivo di Cortese si fa affondo
maieutico e anello di congiunzione tra fatto plastico ed esperienza visiva del
pubblico. Particolari invisibili dei corpi; increspature epidermiche; scorci di
sottinsù; spettacolari inquadrature di piedi e mani che interagiscono con il
precipizio della lastra curvata in acciaio: l’intero corpus degli scatti lavora
a ricostruirci il disegno concettuale di Bergomi. Un disegno teso a concepire
ogni singola posa come un dettato ritmico d’insieme e, allo stesso tempo,
mostrato nella valenza del suo attimo irripetibile ed eterno. Così, anche nei
ventisette scatti della mostra, ogni corpo è impresso dentro-il-Cronos come “grafia”:
segno inciso che desidera rimanere, attraverso un “punto di vista” come luogo
da abitare e heimat verso cui tornare.
In ultima istanza, non ci
rimane che domandarci quale fessura ci sia riservata in questa generosa schermaglia
di sguardi incrociati. Forse noi arriviamo per ultimi, certo; ma ci ritroviamo
tra i primi in virtù di quel “punto di vista” privilegiato che ci situa tra l’occhio
di primo grado di Giuseppe Bergomi che modella sul vero naturale e appone sul
corpo vivente il suo inconfondibile “sigillo” figurale e lo sguardo
interpretante di secondo grado di Roberto Cortese. Il quale non tradisce l’originale,
ma ci guida alla scoperta di quello che Heinrich Wolfflin definiva “la legge
formale interna” che domina ogni scultura e “si dischiude allo sguardo, solo
quando questo vede l’opera non altrimenti che come questa vuole essere vista”.
Mostra:
Scultura&Fotografia. Giuseppe Bergomi e Roberto Cortese.
Cronografia di un corpo - bronzo, acciaio inox, smalto (2012)
Cronografia di un corpo - bronzo, acciaio inox, smalto (2012)
Prospettive difformi - punto
di vista fotografico dell’opera di Giuseppe Bergomi
9-30 maggio 2014, Palazzo
Civico, Torino
Inaugurazione: venerdì, 9
maggio, ore 16:15, Palazzo Civico, Torino
Sito: www.robertocortese.com
Su youtube: L’arte in Comune -
Cronografia di un corpo
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