05 maggio 2014

“Chercher le point de veu”: il fotografo come scultore




di Davide Pugnana


Il fortunato incontro tra Giuseppe Bergomi scultore e Roberto Cortese fotografo ci richiama, oggi, al celebre “paragone” tra scultura e fotografia: un binomio che il secolo scorso ha lavorato a declinare almeno in due direzioni. Da un lato, ci viene incontro lo scultore-fotografo, colui che, dopo aver risolto l’opera danzandovi attorno, torna, talvolta per un inspiegabile impulso, a rileggere lo stesso dettato figurale in tre dimensioni nel fuoco di un unico punto di vista, quello dell’obiettivo della macchina fotografica; dall’altro, c’è il fotografo di sculture, colui che, viceversa, sperimenta la possibilità di leggere l’opera d’arte liberata nello spazio disarticolandone e ricollocandone le parti in una nuova struttura visiva. D’acchito pensiamo agli scatti di Medardo Rosso, Brancusi e Man Ray; mentre per la seconda tipologia, la memoria corre al bianco e nero degli Alinari, ai drammatici rilievi di Giovanni Pisano e ai corpi di Michelangelo nell’obiettivo di Aurelio Amendola, all’esplorazione di San Pietro da parte di Antonia Mulas.

La visione di Roberto Cortese si situa al confine tra questi due approcci. Egli è il fotografo che, forte delle risorse del suo medium, vuole ripercorrere il processo creativo dello scultore per capire come sono fatti i suoi corpi, spinto dal desiderio di scomporre e ricomporre il risultato finale di bellezza; ma è anche, e soprattutto, l’interprete curioso che orienta il suo sforzo di immedesimazione nell’oggetto plastico verso un itinerario di riscoperta dell’opera attraverso la narrazione delle immagini. Questo statuto bifronte permette a Cortese di evitare l’insidioso pericolo dell’antologia fotografica a fini documentaristici, sulla falsariga delle riprese “da catalogo” e di virare la sua onestà ottica verso i punti essenziali dell’esperienza visiva.

Così, delle figure bergomiane di Cronografia di un corpo, Cortese fissa la luce che scorre e si frantuma sui piani cubitali delle ginocchia; insegue il guizzo luminoso che si inarca sui piani tesi delle tibie da atleta, o scende inseguendo il pulviscolo luminoso lungo la schiena come goccia in corsa su un arco. D’improvviso, scopriamo le meraviglie del modellato e, in esse, la consistenza e il peso di queste bronzee presenze prossime a farsi carne: le minute e scabre rugosità dei capelli; l’enucleazione delle spalle, aperte con la dolcezza di un cammeo; le clavicole spiccate in rilievo che sembrano bacchette d’ebano e alle quali rispondono, all’opposto, quelle scapole appena disegnate sottopelle, ora affossate ora rilevate nell’allacciarsi di un braccio con l’altro. Con gioia feroce contempliamo il lieve riporto di pelle sotto le natiche, e, ancora più a fondo, ficchiamo l’occhio nella scabra grana epidermica del collo, crivellata di graffiature e di tagli. Quando Cortese isola tre corpi della serie e ce li mostra nelle loro rispondenze ritmiche, scopriamo la varietà delle finezze anatomiche trovate da Bergomi nella sua infaticabile esplorazione del nudo: le mani allungate e guizzanti che spiccano dai polsi con moto serpentinato; le dita dei piedi puntellate al suolo e i polpacci vibranti nell’anelito elastico della figura tesa verso l’alto; il collo in sforzata torsione; le punte satinate dei seni; la sciabolata d’ombra scavata sotto il mento a sottolinearne la spaziatura.

In questo splendido dialogo tattile con l’opera di Bergomi, così prossimo al possesso, l’intelligenza e l’acume dell’occhio di Cortese sanno restituirci ciò che, per quanto visibile alla superficie, si ostina ad annidarsi sotto l’organismo plastico. L’obiettivo fotografico, tagliando di sguincio l’infilata dei corpi o stringendoli da vicino, aderisce, partecipa, dà battaglia all’oggetto che gli sta davanti. Fruga a denudare quei depositi inespressi sfuggiti persino al controllo dello scultore, il quale, così richiamato, torna sui suoi passi e coglie, con lo stupore della prima volta, il di più di espressività latente che già era racchiuso nel suo lavoro. Per Cortese fotografare la scultura non significa tanto trarne fuori lo charme pittoresque, quel mettervi addosso un filtro o una cipria che funga da maschera di bellezza. È semmai il contrario: pur dovendo tradurre un “testo” (fatto di creta e bronzo patinato), in lingua diversa egli riesce a mantenere la guaina plastica della rappresentazione originale. E non c’è retorica fotografica neppure nel fissare dettagli non immediatamente visibili. Isolati nel campo visivo dello scatto, la loro apparizione dichiara sempre l’appartenenza al corpo sculturale senza mai cadere nel particolare anodino o spettacolare. In questo senso, Cortese gioca a trasformare i dettagli in punti unici di intensità, non in frammenti di un discorso visivo. Con questo colpo d’ala, egli ci ricorda che siamo davanti ad elementi di un tessuto formale concepito dall’artista per funzionare nella relazione di tutte le parti.

Forte di questa qualità della focalizzazione Cortese riesce a farci toccare con l’obiettivo la scattante vivacità e asciuttezza degli undici corpi femminili dislocati in alto, come su di un irraggiungibile altopiano. Ecco spiovere verso di noi quelle mani liberate nell’aria o strette al corpo; quelle schiene e spalle saettate di increspature muscolari; il flettersi delle gambe e la luce che scivola via; e su tutto quella balenante rapidità di modellato liscio, rilevato o modulato senza interruzioni che permea tutti i passaggi plastici; e ancora, il susseguirsi di quelle linee sinuose o acutamente spezzate che registrano l’alternarsi, nel processo esecutivo di Bergomi, di cura lenticolare e di incalzante corsività. Ma la sfida del fotografo non si arresta qui. Ad accrescere questo stupore sensoriale concorre il tentativo di restituirci, attraverso l’inquadratura fotografica, la fattura dei corpi potenziata dall’agire su di essa dell’ambiente: è il precipitare carezzevole o lancinante della luce sui volumi; sono gli affossamenti dei coni d’ombra che costruiscono sacche di resistenza e di tensione lungo i piani; è il serrarsi o disserrarsi delle pose larghe o depresse; sono le abbreviature plastiche che i bagliori dell’attimo luminoso bene esprimono nel meccanismo dei tendini, dei lacerti, delle giunture cucite tra gamba ventre.

Cortese ci racconta Cronografia di un corpo girando col suo occhio attorno all’alto piedistallo incurvato; spia dal basso lo scalare, in diminuendo e in crescendo, delle figure sull’asse, il loro brusio alfabetico di pose ricomposte in perfetta materia anatomica che oscilla, si blocca, si distende, si allunga, si piega, si erge, si geometrizza. Sa cogliere, quando serve, una parentesi narrativa nella testa che accenna a voltarsi al di là della spalla, fissando quell’istante in cui l’idolo nero pare infastidito o distratto dallo sguardo impertinente di un passante. Ma questi ventisette scatti non ci restituiscono solo la sciolta modulazione dei nudi e la maestria di Bergomi nella resa dei corpi accuratamente patinati con quello smalto nero che, a contatto col bronzo, ne accresce l’energia frusteggiante e nervosa del colore-materia. C’è qualcosa di più nell’assalto di questo fotografo alla scultura. L’esempio di Roberto Cortese a noi sembra quello di chi si prova nel difficile compito di carpire, assieme alla configurazione stilistica e tattile del tutto tondo, anche la complessità simbolica dell’opera. Occorre allora soffermarsi sul titolo scelto da Bergomi, la cui densità semantica è tutta raccolta nell’alveo della parola “cronografia”, prelevata dalla disciplina che presiede alla registrazione lineare degli eventi storici sull’asse cronologico. Ma qui il senso è sottoposto a smagliatura. Il tempo - il Cronos - non ha più nulla a che fare con gli eventi della storia. Il tempo gioca con i corpi; letteralmente ne sostiene il peso della condizione umana. Nelle intenzioni di Bergomi, quindi, “cronografia” diviene parola profondamente “implicata” con la vita. La linea cronografica si materializza nel basamento orizzontale ed è su questo asse che l’obiettivo di Cortese si fa affondo maieutico e anello di congiunzione tra fatto plastico ed esperienza visiva del pubblico. Particolari invisibili dei corpi; increspature epidermiche; scorci di sottinsù; spettacolari inquadrature di piedi e mani che interagiscono con il precipizio della lastra curvata in acciaio: l’intero corpus degli scatti lavora a ricostruirci il disegno concettuale di Bergomi. Un disegno teso a concepire ogni singola posa come un dettato ritmico d’insieme e, allo stesso tempo, mostrato nella valenza del suo attimo irripetibile ed eterno. Così, anche nei ventisette scatti della mostra, ogni corpo è impresso dentro-il-Cronos come “grafia”: segno inciso che desidera rimanere, attraverso un “punto di vista” come luogo da abitare e heimat verso cui tornare.

In ultima istanza, non ci rimane che domandarci quale fessura ci sia riservata in questa generosa schermaglia di sguardi incrociati. Forse noi arriviamo per ultimi, certo; ma ci ritroviamo tra i primi in virtù di quel “punto di vista” privilegiato che ci situa tra l’occhio di primo grado di Giuseppe Bergomi che modella sul vero naturale e appone sul corpo vivente il suo inconfondibile “sigillo” figurale e lo sguardo interpretante di secondo grado di Roberto Cortese. Il quale non tradisce l’originale, ma ci guida alla scoperta di quello che Heinrich Wolfflin definiva “la legge formale interna” che domina ogni scultura e “si dischiude allo sguardo, solo quando questo vede l’opera non altrimenti che come questa vuole essere vista”. 


Mostra: Scultura&Fotografia. Giuseppe Bergomi e Roberto Cortese.
Cronografia di un corpo - bronzo, acciaio inox, smalto (2012)

Prospettive difformi - punto di vista fotografico dell’opera di Giuseppe Bergomi

9-30 maggio 2014, Palazzo Civico, Torino

Inaugurazione: venerdì, 9 maggio, ore 16:15, Palazzo Civico, Torino


Su youtube: L’arte in Comune - Cronografia di un corpo 



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