di Gianni Quilici
Un’estate in
Grecia è un titolo ambiguo, ma indovinato, perché invece di evocare una
vacanza tra mare e archeologia, come pigramente si potrebbe immaginare,
racconta un altro tipo di viaggio attraverso luoghi, esperienze, persone che
diano una risposta all’obiettivo che Giuseppe Ciulla, l’autore, si è posto
inizialmente: “Raccontare ciò che la crisi non racconta, perché solo se capisci
la Grecia, oggi capisci cos’è rimasto dell’Europa”.
Da qui un viaggio
non predeterminato, “un viaggio leggero, evitando scali globalizzati, usando
solo mezzi pubblici” mimetizzandosi con i locali. Non un turista, ma un greco
in tutto per tutto. Un po’ come hanno fatto grandi giornalisti come Ryszard Kapuscinski,
Tiziano Terzani e come continua a fare Paolo Rumiz.
Il viaggio percorrerà
4000 Km
da Patrasso ad Atene fino al confine di Orestiada con uno sconfinamento a
Edirne, in Turchia, con successivo
ritorno ed altri cambi di rotta, tra cui una visita (introspettiva) al
monastero di Agios Pavlos, sul monte Athos.
E’ un viaggio che
fa viaggiare. E’ un viaggio che vede (occhi), che ascolta (orecchie), che sente
(cuore), che riflette (ragione). Di un giornalista, che è anche un narratore e,
a volte, un narratore poeta.
Giuseppe Ciulla presenta il libro a Lucca. Foto Gianni Quilici |
Del giornalista Giuseppe Ciulla ha la curiosità di
esplorare, di seguire tracce, di verificarle; del narratore ha lo sguardo
analitico su luoghi, persone e il ritmo del discorso; del poeta la capacità di
creare, a volte, metafore dentro la stessa realtà.
Faccio un esempio,
in cui narrazione e poesia si incontrano, con una breve premessa. Uno dei
luoghi emblematici della Grecia è il confine, perché “se l’impero europeo ha
delle crepe” scrive l’autore “ è alle frontiere che vanno cercate”. Perché è il confine il luogo in cui si
addensano le maggiori contraddizioni, il maggiore crogiolo di culture e di
problemi. E questo confine ha un fiume: l’Evros.
Ecco come Ciulla
lo descrive:
“ Ci fermiamo
abbagliati dalla bellezza della strada. A piedi risaliamo il tornante attratti
dalla forza magnetica del confine. L’Evros è sotto di noi. Spunta da dietro la curva, il manto verde che
luccica sotto i raggi del primo sole. Respira lento come un ventre a riposo.
Scorre torcendosi a sud, a tratti vedi lingue della sua pelle argentata
saltellare in avanti, come spinte da un colpo di frusta. La corrente le raduna
in un vortice e hai la sensazione che nulla possa fermarle. Poi la forza del
fiume le rimette in linea in un coro di grilli che ne accompagna l’andare. Solo
guardandolo negli occhi capisci con che cosa hai a che fare. La legge del fiume
conta più di quella degli uomini, è la forza della frontiera. Ora lo capisco.
Capisco le facce dei migranti, i loro occhi spiritati, le storie diventate
leggende. L’Evros è un mondo, decide della vita e della morte. Custodisce anime
e segreti. Da sempre presidia il passaggio per l’Oriente. Solo il Danubio,
l’anima celeste d’Europa, ha un carisma superiore tra Istanbul e Vienna.”
C’è realismo, c’è
una scansione ritmica, c’è la grandezza della metafora. La frontiera come luogo
simbolico di morte e di vita, di speranza e di disperazione.
Il viaggio scopre
luoghi, personaggi ed esperienze, che, pur nella loro limitatezza geografica, tracciano,
in nuce, ipotesi alternative alla politica distruttiva di Bruxelles. Dai commercianti
di Volos, che hanno creato un mercato senza intermediazioni e il Tem, moneta alternativa all’euro, all’esperienza
spirituale degli eremiti sul monte Athos; dai volontari medici di una clinica,
che curano gratis in un quartiere povero a pochi chilometri da Atene, ai
contadini che danzano fino e oltre il mattino a Tripoli nel pieno del
Peloponneso; dalla comunità “Kitnafuga” tra i più vecchi e tecnologizzati
produttori di miele biologico del vecchio continente, a Sharif, che seppellisce
gli stranieri morti nel fiume Evros, facendosi cento chilometri fino al confine
per prendersi il corpo che le acque avevano inghiottito.
Esperienze che,
pur rimanendo localistiche, indicano una direzione, possibili modelli di
sviluppo nazionali o almeno interregionali.
Ma la Grecia,
finisce per capire Giuseppe Ciulla, ha qualcosa di diverso dall’occidente
europeo. L’autore ne individua almeno tre, di diversità.
La prima: i greci sono gente abituata alla precarietà.
La popolazione del vecchio continente no. In occidente l’incertezza spaventa. In
Grecia ci convivono da duemila anni.
La seconda: i
greci sono ospitali, l’ospitalità è nella loro cultura da sempre. Offrire,
regalare, ospitare è per loro sentirsi orgogliosamente greci, diversi. La
parola “philotimo” è la parola che sintetizza questa loro filosofia.
La terza, che
forse è la causa profonda delle altre due: i greci sono rivolti ad est. Non
hanno dimenticato “ che una parte dell’Europa promosse la quarta crociata,
distruggendo per sempre l’antica capitale, Bisanzio, e cambiando il destino dei
popoli che vivevano nel suo mito”. Quindi: “lo stile di vita di un greco
somiglia più a quello di un siriano che a quello di un tedesco”.
Infine il viaggio
di Ciulla non ha la presunzione di esaurire la realtà greca, è uno sguardo
acuto di ciò che ha visto direttamente nell’estate 2012. E’ un libro aperto che
si apre ad altri viaggi nel flusso di un tempo in rapido mutamento.
Giuseppe Ciulla. Un’estate in Grecia.
Chiare lettere. Pag. 151. Euro 12,90
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